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Se il licenziamento è stato intimato per vendetta, spetta sempre la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento dei danni

Tutela fortissima a favore del lavoratore

Il Tribunale Milano, ritenendo la natura ritorsiva di un licenziamento intimato dal datore di lavoro che occupava meno di 16 addetti, ha ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro, con il risarcimento del danno subito dal lavoratore in conseguenza del licenziamento illegittimo. Il datore di lavoro ha impugnato la sentenza davanti alla Corte di Appello di Milano che, invece, pur riconoscendo la natura ritorsiva del licenziamento, ha ritenuto di dover condannare l'azienda al solo risarcimento del danno che ha fissato nella misura massima prevista per legge per le piccole aziende e pari a sei mensilità. La corte di appello ha considerato come fatto decisivo del suo convincimento l'elemento dimensionale dell'azienda che, pacificamente, non superava le 15 unità lavorative.

Il lavoratore ha fatto ricorso in Cassazione.

La  Corte di Cassazione dopo aver affermato che la corte di appello di Milano ha una concezione alquanto originale del licenziamento ritorsivo, o per rappresaglia o per discriminazione, ha accolto il ricorso ed ha dichiarato la nullità del licenziamento ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro, con le garanzie dell'art. 18 dello statuto,  con il risarcimento del danno, così come statuito originariamente  nella prima sentenza del tribunale di Milano.

Il principio giuridico è stato così sintetizzato dalla corte di cassazione: "  il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta — assimilabile a quello discriminatorio — costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (Cass. 8 agosto 2011, n. 17087);

b) il divieto di licenziamento discriminatorio — sancito dall'art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall'art. 15 della legge n. 300 del 1970 e dall'art. 3 della legge n. 108 del 1990 - è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo (Cass. 18 marzo 2011, n. 6282, in senso analogo: Cass. 27 febbraio 2015, n. 3986).

3.3.- A ciò può aggiungersi che la Corte milanese non ha neppure considerato che il giudice nazionale, laddove vengano in considerazione eventuali profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, non può fare a meno di effettuarne la valutazione sia in base all'art. 3 Cost. sia in considerazione degli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell'art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997. Tale processo, che è poi proseguito in sede comunitaria e nazionale, ha portato, nel corso del tempo e principalmente per effetto del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro ordinamento condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta abbiano ricevuto una specifica tipizzazione - pur non necessaria, in presenza dell'art. 3 Cost. - (Corte cost. sentenza n. 109 del 1993) - come discriminatorie (in modo diretto o indiretto), soprattutto a partire dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 215 e D.Lgs. n. 216 del 2003 con la previsione di un particolare regime dell'onere probatorio.

3.4.- A tutto ciò consegue l'erroneità della definizione di licenziamento per ritorsione adottata dalla Corte d'appello e delle conseguenze che ne sono state tratte pur dopo avere evidenziato la presenza, nella specie, di tutti gli elementi propri della suddetta fattispecie, nella quale il recesso costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione di alcuni soggetti, che si sono sentiti accusati di infedeltà patrimoniale e criticati nel loro operato come vertici della società, in una relazione che l'E. ha scritto su richiesta di un componente del consiglio di amministrazione, senza diffonderne il contenuto (peraltro neppure considerato denigratorio dalla Corte d'appello).

Il carattere vendicativo del licenziamento è dimostrato ictu oculi dalla coincidenza tra i suddetti soggetti e coloro che hanno irrogato il licenziamento, oltretutto con modalità ingiuriose come riconosce la stessa Corte d'appello." 

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 29 settembre – 3 dicembre 2015, n. 24648.

Nella foto: opera di Alberto Nobile, olio su tela, il Borgo, 1950.

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