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Morte per amianto: irrilevante che il rapporto di lavoro si sia svolto in periodo antecedente all’introduzione di norme specifiche di tutela

L'obbligo è comunque previsto dal Dpr n. 303 del 1956

All’origine del ricorso vi è la sentenza della Corte d'Appello, che ha respinto l'impugnazione proposta dagli eredi di un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale di Genova che aveva rigettato la domanda da essi svolta, sia “iure proprio" che "iure hereditatis", nei confronti della società resistente, per la condanna di quest'ultima al risarcimento del danno conseguito al decesso del loro dante causa per mesotelioma pleurico, contratto nell'esercizio dell'attività lavorativa svolta (nell’arco di trent’anni) come impiegato addetto al controllo ed alla rilevazione dell'orario di lavoro degli operai.

La Corte d’Appello, in particolare, aveva stabilito che, pur non essendo contestato che la malattia era stata contratta nel periodo in cui aveva svolto l'attività lavorativa, era mancata la prova dell'elemento soggettivo in riferimento alla condotta omissiva da addebitare alla parte datoriale, in quanto non era stato dimostrato che gli ambienti di lavoro richiedessero l'adozione di particolari misure per l’abbattimento della polvere che vi stazionava.

La Corte di cassazione, nella sentenza in commento, ha sottolineato come “all'epoca di svolgimento del rapporto di lavoro del dante causa dei ricorrenti era ben nota l'intrinseca pericolosità delle fibre dell'amianto, tanto che l'uso di materiali che ne contengono era sottoposto a particolari cautele, indipendentemente dalla concentrazione di fibre. Si imponeva, quindi, il concreto accertamento della adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 c.c. ed al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21 ove si stabilisce che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro" soggiungendo che "le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione", cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri”. Prosegue, la Suprema Corte, stabilendo che “l'onere della prova gravava sulla datrice di lavoro che avrebbe dovuto dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova liberatoria) attraverso l'adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle suddette norme, essendo incontestato il nesso causale tra l'evento (morte per mesotelioma pleurico del dante causa degli odierni ricorrenti) e l'attività svolta dal [dante causa dei ricorrenti] in ambienti a contatto con l'amianto”.

La Cassazione ha, quindi, accolto il ricorso, ritenendo “irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 810” e cassando la sentenza impugnata, con rinvia alla Corte d’Appello per la decisione della causa conformemente ai principi di diritto riportati.

(Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 22710/15; depositata il 6 novembre)

 

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