01/07/2014
Il fatto concreto: un lavoratore, ha rivolto alla presenza di alcuni dipendenti, espressioni ingiuriose nei confronti di un quadro direttivo funzionario di direzione aziendale. L'azienda ha licenziato il lavoratore. La corte di appello ha annullato il licenziamento disciplinare ritenendo, conclusivamente, che le riprovevoli frasi del lavoratore erano scaturite in un conteso ambientale di forte contrapposizione ed erano frutto di uno scarso controllo delle proprie capacità e modalità di comunicazione, se pure idonee a ledere l'onore ed il decoro del diretto destinatario (come accertato in sede penale con sentenza passata in giudicato), non si configuravano quale manifestazione di ribellione nei confronti degli assetti aziendali costituiti, così da trascendere lo specifico rapporto interpersonale ed a ledere in modo grave, sì da farla venir meno, la fiducia che il datore deve riporre nel proprio dipendente.
La corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi su ricorso del datore di lavoro, con questa sentenza che commentiamo, riconferma il principio giuridico secondo il quale il giudice del merito, nel valutare l'inadempienza contrattuale del lavoratore subordinato, non è vincolato alle previsioni del contratto collettivo perché egli deve valutare il comportamento del lavoratore tenendo conto dei principi e dei parametri fissati dalla legge.
Secondo la giurisprudenza della corte suprema di cassazione, il contratto collettivo non ha il potere di vincolare il giudice nel giudicare le modalità del concreto esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro.
Il principio, dalla corte suprema di cassazione, è stato così enunciato: "Anche nell'ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, il giudice investito della legittimità di tale recesso deve comunque valutare alla stregua dei parametri di cui all'art. 2119 c.c., l'effettiva gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, con l'ulteriore precisazione secondo cui la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verificare, stante l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all'art. 2119 c.c., e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (vedi, fra le tante, Cass. 4 marzo 2013 n.5280). Il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c. (vedi in tal senso Cass. 10 luglio 2007 n. 25743), sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).Tale giudizio è rimesso al giudice di merito la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione, dovendo ritenersi (vedi ex plurimis, Cass. cit. n.6498/12) al riguardo che spetta al giudice di merito procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, secondo un apprezzamento di fatto…"
Corte di cassazione sezione lavoro, sentenza numero 14177 del 23 giugno 2014.