19/10/2018
Un lavoratore ha prestato la sua attività lavorativa prima con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e successivamente con un contratto di associazione in partecipazione. Cessato il rapporto di lavoro, è sorta la controversia sulla natura giuridica dell'accordo intervenuto tra le parti. Il Tribunale e la Corte di Appello hanno dichiarato l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e hanno riconosciuto, a favore del lavoratore, le differenze retributive proprie di questa figura contrattuale. Non essendovi stata tra le parti alcuna sottoscrizione di un contratto di lavoro subordinato, i giudici dovevano decidere se e quale contratto collettivo applicare al rapporto di lavoro per quantificare l'eventuale diritto all'esistenza di ulteriori pagamenti retributivi. Il lavoratore chiedeva l'applicazione del contratto collettivo delle aziende del terziario. La Cassazione, nella sentenza commentata, ha evidenziato che le parti non hanno mai fatto richiamo ad alcuna contrattazione collettiva che potesse disciplinare il loro rapporto di lavoro subordinato, avendo concluso all'epoca dei contratti di lavoro parasubordinato. Qualsiasi applicazione di contratto collettivo è estranea alla volontà delle parti; un contratto collettivo può risultare applicabile a quel rapporto di lavoro soltanto in via indiretta, con il richiamo all'articolo 36 della Costituzione, che assicura al lavoratore il diritto all'equa retribuzione. Il contratto collettivo può essere applicato solo per la determinazione della retribuzione base spettante al lavoratore subordinato, senza riguardo agli altri istituti contrattuali previsti dal contratto collettivo che, per la Cassazione, costituisce solo un possibile parametro orientativo per il giudice che deve assicurare al lavoratore la" giusta retribuzione". La Cassazione ha così affermato il principio secondo il quale "in tema di determinazione della giusta retribuzione, il giudice del merito che assuma come criterio orientativo un contratto collettivo non vincolante per le parti, deve prendere in considerazione solo gli istituti retributivi che costituiscono il cosiddetto "minimo costituzionale". I contratti collettivi post corporativi, non direttamente applicabili al rapporto, possono essere utilizzati soltanto quale parametro e quindi con esclusione dell'automatica applicazione degli istituti convenzionali di cosiddetta retribuzione indiretta, quali le mensilità aggiuntive e gli scatti di anzianità, la cui applicazione è subordinata all'esito positivo dell'indagine del giudice circa la necessità di computare i detti compensi per garantire l'adeguatezza della retribuzione ai sensi dell'articolo 36 della Costituzione;…". Il giudice, secondo questa sentenza, potrà riconoscere al lavoratore anche gli istituti di retribuzione differita previsti dal contratto collettivo ritenuto applicabile (14ª mensilità, riduzione dell'orario, scatti di anzianità, ed altre indennità) solo nel caso in cui questo riconoscimento "si dimostra essenziale al fine della determinazione del compenso secondo i principi stabiliti dall'articolo 36 della Costituzione". La Cassazione, nell'affermare questo principio, ha fatto richiamo ad una pluralità di sentenze della stessa Corte che hanno nel tempo affermato questo indirizzo.
La sentenza ha sicuramente l'effetto indesiderato di premiare le aziende non virtuose, cioè quelle aziende che violando la legge, hanno qualificato in modo fraudolento il rapporto di lavoro. Quelle aziende, con i principi affermati in questa sentenza, si vedono così destinatarie di un trattamento privilegiato che le pongono in una posizione di concorrenza sleale con chi, invece, è stato rigorosamente osservante delle norme di legge e i contratti collettivi ha dichiarato di volerli applicare da subito e nella loro interezza.
Cassazione sentenza numero 20.452 resa pubblica il 2 agosto 2018.
Per la difesa davanti ai giudici è consentito produrre anche i documenti personali e riservati
“Giova ribadire che la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza: dovendo, tuttavia, tale facoltà di difendersi in giudizio, utilizzando gli altrui dati personali, essere esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dalla L. n. 675 del 1996, art. 9, lett. a) e d), sicché la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, con le esigenze di difesa.” ( Cass. civ., sez. lav., sent., 12 novembre 2021, n. 33809)