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Prima la dequalificazione e poi il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: licenziamento per rappresaglia.

Ordinata la reintegrazione nel posto di lavoro

 Un dipendente, che rivestiva la qualifica di quadro, è stato licenziato dal datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo, cioè per  ragioni inerenti l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento avanti il tribunale. Nella sua tesi difensiva il lavoratore sosteneva che prima del licenziamento era stato oggetto di una vera e propria attività persecutoria da parte dell’azienda che si era manifestata attraverso il mutamento delle sue mansione in senso peggiorativo e con danno alla sua professionalità. Il licenziamento era così espressione di una volontà illecita perché frutto di una rappresaglia nei confronti del lavoratore che aveva contestato questo comportamento aziendale. Il tribunale, però, ha escluso la natura ricorsiva del licenziamento ritenendo sussistente, invece, la semplice illegittimità del licenziamento sotto il profilo del giustificato motivo oggettivo assunto dall’azienda. Su ricorso del lavoratore interessato, però, la corte di appello accoglieva la domanda sul licenziamento discriminatorio e per rappresaglia e ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro con il risarcimento dei danni. 

Il datore di lavoro contro la sentenza della corte di appello ha proposto ricorso in cassazione assumendo la erroneità della sentenza perché nel licenziamento non vi è stato intento di rappresaglia celato dietro motivazioni fittizie. La cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda con la motivazione che vi offriamo testualmente: “Il divieto di licenziamento discriminatorio, sancito dall'art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall'art. 15 St. lav. e dall'art. 3 della legge n. 108 del 1990, è suscettibile - in base all'art. 3 Cost. e sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in particolare, nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell'art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997 - di interpretazione estensiva, sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, ossia dell'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo (Cass. 3 dicembre 2015 n. 24648; Cass. 8 agosto 2011 n. 17087; Cass. 18 marzo 2011 n. 6282).

Nel caso di ricorso alla prova presuntiva resta, peraltro, riservata all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito la sussistenza sia dei presupposti per il ricorso a tale mezzo di prova, sia dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge, con valutazione sindacabile in sede di legittimità solo quanto solo quanto; alla congruenza della relativa motivazione, con la precisazione che, per aversi una presunzione giuridicamente valida, non occorre che tra il fatto noto e il fatto ignoto sussista una relazione avente carattere di assoluta ed esclusiva necessità, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità.

Nella specie la Corte di merito ha ritenuto ritorsivo il licenziamento non solo perché il giudice di primo grado ha escluso la sussistenza del giustificato motivo di licenziamento, ma anche perché, come accertato dal Tribunale con sentenza passata in giudicato, era stata dedotta a giustificazione del licenziamento una circostanza non vera, e cioè che all'interno del Centro vi fosse un'unica figura di quadro direttivo, costituita dal direttore, circostanza questa non vera, atteso che l'odierno ricorrente, con lettera del 31 ottobre 2008, facente seguito alla delibera del Consiglio direttivo del giorno precedente, venne invitato a prestare servizio all'interno della struttura mantenendo la qualifica di quadro direttivo e la medesima posizione economica.

Ed ha aggiunto che il provvedimento di recesso, una volta escluso il motivo formalmente comunicato, non poteva che essere correlato al contenzioso instaurato dal dipendente per il mantenimento della qualifica di quadro, affermazione questa condivisibile tenuto conto che l'ordinanza cautelare, con la quale è stato ordinato al Centro di assegnare allo I. la qualifica e le mansioni di direttore della struttura ovvero diverse mansioni confacenti al profilo e alla professionalità raggiunta di quadro direttivo, è stata emessa in data 8 gennaio 2010, mentre il licenziamento è stato disposto a distanza di circa venti giorni (29 gennaio 2010).

Trattasi di motivazione adeguata, coerente e priva di vizi logici e giuridici, che peraltro il ricorrente ha censurato inammissibilmente sotto il profilo del previgente testo dell'art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., non applicabile ratione temporis (la sentenza impugnata è stata depositata il 4 febbraio 2014), essendo ora consentito il ricorso per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", e cioè, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 8053/14), per l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Di conseguenza, sempre secondo le Sezioni Unite, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico" il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", elementi tutti che il ricorrente ha omesso di precisare.

CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 novembre 2016, n. 22323

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