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Giurisprudenza del lavoro dei giudici dellA lOMBARDIA

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19/04/2025

Aprile 2025

CORTE DI APPELLO DI MILANO

 Licenziamento nullo per partecipazione a sciopero: la corte d'appello di Milano conferma la tutela del diritto costituzionale

 La Corte d'Appello di Milano, con sentenza n. 90/2025, ha confermato la nullità del licenziamento intimato da un'azienda di trasporti a un proprio dipendente per aver partecipato ad uno sciopero proclamato dal sindacato.

Nel caso di specie, il lavoratore era stato licenziato per un'assenza "ingiustificata" verificatasi il 14 dicembre 2022, giorno in cui il sindacato aveva proclamato uno sciopero, comunicandolo all'azienda alle ore 10:16 dello stesso giorno.

L'azienda sosteneva l'illegittimità dell'assenza per mancanza di una preventiva proclamazione dello sciopero. La Corte ha però respinto tale tesi, richiamando il consolidato orientamento della Cassazione secondo cui lo sciopero è un diritto costituzionalmente garantito che "è libero nella forma, non richiedendo una sua comunicazione al datore di lavoro, né una sua formale proclamazione".

Principio di diritto:

La Corte ha ribadito che il diritto di sciopero, sancito dall'art. 40 della Costituzione, è un diritto individuale che non richiede preventiva autorizzazione o comunicazione da parte dei lavoratori o delle organizzazioni sindacali, salvo per i servizi pubblici essenziali. Di conseguenza, l'assenza dal lavoro per partecipazione ad uno sciopero è sempre giustificata, anche in assenza di preventiva proclamazione formale, e il licenziamento intimato per tale motivo è nullo in quanto discriminatorio ai sensi dell'art. 15, comma 1, lett. b) dello Statuto dei Lavoratori, in quanto lesivo del diritto costituzionale di sciopero.

La sentenza si pone nel solco della consolidata giurisprudenza della Cassazione (richiamando, tra le altre, le sentenze nn. 46/1984, 5686/1987, 869/1992, 18368/2013, 24653/2015 e da ultimo la n. 6787/2024) che tutela la libertà di forma dello sciopero quale diritto costituzionale fondamentale del lavoratore. Giudice relatore Dottoressa Ravazzoni.

  

Quando l’appalto" diventa una maschera: la somministrazione illecita di manodopera smascherata dalla Corte d’Appello di Milano

  Con la sentenza n. 208/2025, la Corte d’Appello di Milano ha riconosciuto la somministrazione illecita di manodopera nell’ambito di un contratto formalmente qualificato come appalto di servizi. Il caso, paradigmatico per la chiarezza degli elementi accertati, offre un’utile occasione per tornare sul confine tra appalto genuino e interposizione vietata.

Il lavoratore era stato assunto da una cooperativa (formalmente appaltatrice) per prestare attività di pulizia presso lo stabilimento di una società committente. Sin dal primo giorno, tuttavia, egli operava inserito stabilmente nell'organizzazione aziendale del committente, ricevendo ordini, direttive e orari direttamente da quest’ultimo, con strumenti forniti dalla società committente stessa. L’appaltatrice si limitava a svolgere funzioni amministrative (buste paga, ferie, permessi) e non aveva alcun preposto sul luogo di lavoro.

Nel motivare la propria decisione, la Corte richiama i criteri consolidati della giurisprudenza di legittimità: l’appalto genuino richiede l’organizzazione autonoma del lavoro e l’assunzione del rischio d’impresa da parte dell’appaltatore, anche negli appalti c.d. labour intensive. Quando manchi l’effettivo esercizio del potere direttivo e organizzativo da parte dell’appaltatore, e i lavoratori risultino eterodiretti dal committente, si configura una somministrazione illecita.

Nel caso di specie, la Corte ha accertato che:

Il lavoratore riceveva quotidiane istruzioni dai dipendenti della committente, che di fatto gestivano la sua attività;

L'appaltatrice non era presente sul posto con alcun preposto e non organizzava in alcun modo il lavoro;

Gli strumenti e i materiali di lavoro erano della committente, che forniva anche il tesserino per il badge e stabiliva gli orari di lavoro;

Il compenso pattuito tra appaltatrice e committente era parametrato alle ore lavorate, senza alcun investimento in mezzi o assunzione di rischio.

Questa decisione ribadisce con forza che non è sufficiente un contratto di appalto formalmente valido per escludere la somministrazione illecita. Il giudice guarda alla realtà sostanziale del rapporto, al concreto assetto dei poteri e dell’organizzazione. Se l’appaltatore non è un vero imprenditore, ma solo un fornitore di forza lavoro, allora si ha un'interposizione vietata. Con tutte le conseguenze civilistiche e sanzionatorie del caso. Giudice relatore Casella Giovanni

 

Nullità del licenziamento discriminatorio per disabilità: la natura oggettiva della discriminazione

 La Corte d'Appello di Milano, con sentenza n. 226/2025, ha confermato la nullità del licenziamento intimato ad un lavoratore dichiarato invalido al 90%, ribadendo il principio secondo cui la discriminazione opera oggettivamente, a prescindere dalla consapevolezza datoriale della condizione di disabilità.

Nel caso di specie, il datore di lavoro aveva licenziato il dipendente - assunto come "pulitore" a seguito di cambio appalto - dopo che una visita preventiva ne aveva accertato l'inidoneità permanente alla mansione, adducendo l'impossibilità di ricollocazione.

La Corte, confermando la pronuncia di primo grado, ha ritenuto il licenziamento discriminatorio non avendo il datore di lavoro adempiuto all'onere di provare, oltre all'impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o inferiori, anche l'impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli.

La Corte ha ribadito che la discriminazione opera oggettivamente, rilevando il mero trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, a prescindere dall'elemento soggettivo del datore di lavoro.

È stata quindi confermata l'applicazione della tutela reintegratoria piena, con condanna alla reintegrazione e al pagamento dell'indennità risarcitoria dal licenziamento all'effettiva reintegrazione, oltre contributi. Giudice relatore Dottoressa Pattumelli.

 

La Corte d'Appello di Milano chiarisce: il compenso del patto di non concorrenza non è retribuzione

La Corte d'Appello di Milano, con la sentenza n. 99/2025, ha affrontato un'importante questione relativa alla natura del compenso previsto nei patti di non concorrenza, chiarendo che il pagamento mensile di tale somma non ne modifica la natura da corrispettivo a retribuzione.

Il caso riguardava un lavoratore che, dopo la fine del rapporto di lavoro, aveva contestato la validità del patto di non concorrenza sottoscritto con l'azienda, sostenendo che le somme ricevute mensilmente a tale titolo fossero in realtà una forma mascherata di retribuzione e quindi non dovessero essere restituite nonostante la nullità del patto.

La Corte ha respinto questa tesi, spiegando che:

- Il fatto che il compenso venga pagato in rate mensili durante il rapporto di lavoro è solo una modalità di pagamento che non ne modifica la natura

- Le somme pagate come compenso del patto hanno una funzione diversa dalla retribuzione: mentre quest'ultima compensa il lavoro svolto, il compenso del patto remunera il sacrificio di non potersi impiegare in settori concorrenti dopo la fine del rapporto

- Non basta che il compenso sia inadeguato per trasformarlo in retribuzione

I giudici hanno anche escluso che il patto fosse stato predisposto dall'azienda in modo fraudolento per ottenere la restituzione delle somme in caso di nullità. Infatti:

- Il patto risponde a interessi contrapposti: l'azienda vuole evitare la concorrenza dell'ex dipendente, il lavoratore vuole essere compensato per questa limitazione

- Se il patto è nullo, l'azienda perde il vantaggio principale (il divieto di concorrenza) e il lavoratore deve restituire quanto ricevuto proprio perché viene meno la ragione del pagamento.

- Il lavoratore che non viola il patto nullo può comunque chiedere il risarcimento del danno se ha rinunciato ad altre opportunità lavorative.

La sentenza fornisce quindi un'importante chiarimento: il pagamento mensile del compenso per il patto di non concorrenza è solo una modalità pratica che non ne modifica la natura giuridica. Se il patto viene dichiarato nullo, le somme ricevute devono essere restituite perché viene meno la causa del pagamento. Giudice dott. Giovanni Casella.

 

 TRIBUNALE DI MILANO

 Giustificato il licenziamento del dirigente perché frutto di scelte imprenditoriali lecite e non arbitrarie

 Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 1207 del 2025, ha rigettato il ricorso di un dirigente licenziato per giustificato motivo oggettivo, riconoscendo la legittimità del recesso datoriale fondato sulla soppressione della posizione di Chief Innovation Officer nell’ambito di una riorganizzazione aziendale motivata dal disallineamento tra risultati economici e obiettivi prefissati. La società aveva giustificato il licenziamento con una contrazione dei ricavi e l’esigenza di una più efficiente gestione dei costi, specificando che le funzioni del dirigente erano state parzialmente assorbite dall’Amministratore Delegato e in parte soppresse. Il giudice ha ritenuto provato che non vi fossero posizioni alternative disponibili, escludendo dunque la violazione dell’obbligo di repêchage, e ha chiarito che non è necessaria una crisi aziendale in senso tecnico per configurare un giustificato motivo oggettivo, essendo sufficiente una riorganizzazione effettiva, anche fondata su ragioni strategiche o su mancato raggiungimento di risultati attesi. Nonostante la recente attribuzione del nuovo ruolo al lavoratore, il Tribunale ha escluso ogni intento strumentale da parte dell’azienda, rilevando che l’assegnazione del ruolo era stata condivisa con il dipendente già nei mesi precedenti e che il recesso era frutto di scelte imprenditoriali lecite e non arbitrarie. La decisione si inserisce in un orientamento giurisprudenziale consolidato che tutela il potere organizzativo del datore, purché esercitato nel rispetto dei principi di concretezza, attualità e trasparenza. Giudice dott.ssa Francesca Saioni.

 

Se nel part time non si indica l’orario di lavoro da osservare, l’azienda deve risarcire il danno al lavoratore.

Il Tribunale del Lavoro di Milano, con la sentenza n. 5551/2024 pubblicata il 5 aprile 2025, ha condannato una cooperativa sociale a risarcire una lavoratrice part-time per la mancata indicazione dell’orario di lavoro nel contratto individuale. La decisione, fondata sull’art. 10, comma 2, del d.lgs. 81/2015, riconosce che l’assenza di una precisa collocazione temporale dell’orario, comunicato solo mensilmente e modificato con frequenza, ha impedito alla lavoratrice di organizzare la propria vita privata e professionale, precludendole anche la possibilità di reperire un secondo impiego. Il giudice ha accolto la quantificazione del danno proposta in ricorso, pari al 27% della retribuzione complessiva percepita nel periodo dal 1° ottobre 2016 al 31 marzo 2023, condannando il datore di lavoro a versare l’importo di € 26.829,70 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. La sentenza sottolinea l’obbligo per il datore di lavoro di indicare sin dall’origine, e in modo stabile, l’orario di lavoro nei contratti part-time, pena la responsabilità risarcitoria, rafforzando così la tutela del lavoratore nella gestione del proprio tempo e nella possibilità di integrare il reddito con ulteriori occupazioni. Giudice dott. Atanasio.

  

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: il Tribunale di Milano lo dichiara illegittimo per mancanza di prova sulla reale soppressione del posto

 Il Tribunale di Milano ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a una dipendente, rilevando che la società non ha assolto l’onere della prova circa la reale necessità del recesso: la dedotta contrazione della redditività non è stata posta in relazione con l’esigenza concreta di sopprimere il ruolo della lavoratrice, la quale è stata l’unica dipendente a essere licenziata, mentre nello stesso periodo l’azienda ha assunto nuovo personale, incluso personale addetto a mansioni simili a quelle svolte dalla ricorrente; è risultato inoltre che le funzioni da lei svolte non sono state eliminate ma redistribuite ad altri dipendenti già presenti in azienda, e non è stato dimostrato alcun riassetto organizzativo effettivo né l’impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni, configurandosi dunque un difetto strutturale del presupposto legittimante il licenziamento oggettivo. (Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, sentenza n. 1343/2025, R.G. n. 9873/2024, pronunciata in data 20 marzo 2025 e pubblicata l'8 aprile 2025, Giudice dott.ssa Paola Ghinoy).

  

Sanzioni discriminatorie verso il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza: il Tribunale di Milano le annulla per violazione delle garanzie sindacali.

 Il Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, in persona della dott.ssa Rossella Chirieleison, ha dichiarato la nullità delle sanzioni disciplinari irrogate a un lavoratore eletto Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) e componente RSU, riconoscendo la natura ritorsiva e discriminatoria dei provvedimenti adottati. In particolare, il dipendente era stato sanzionato dapprima con una multa di 4 ore, e successivamente con una sospensione di due giorni dal servizio, per aver sostato in azienda fuori turno e per aver posto domande al medico competente durante un sopralluogo. Il giudice ha rilevato che, secondo l’art. 50 del d.lgs. 81/2008 e l’art. 13 del CCNL Poste, l’RLS ha diritto di accesso ai luoghi di lavoro e di interlocuzione con le figure aziendali e sanitarie senza necessità di autorizzazione e senza che ciò configuri di per sé violazione disciplinare. Le contestazioni, formulate in termini generici e privi di concreta lesività per l’organizzazione aziendale, hanno dunque finito per colpire lo stesso esercizio delle prerogative sindacali e di sicurezza, costituzionalmente tutelate. Il Tribunale ha pertanto accolto integralmente il ricorso del lavoratore, condannando l’azienda alla restituzione delle somme trattenute e al pagamento delle spese processuali. (Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, sentenza n. 906/2025, R.G. n. 9673/2024, pronunciata il 25 febbraio 2025 e pubblicata il 7 aprile 2025, Giudice dott.ssa Rossella Chirieleison).

 

 Rivendicazione del superiore inquadramento: l’onere della prova grava sul lavoratore.

 Quando un lavoratore rivendica un superiore inquadramento contrattuale rispetto a quello formalmente assegnato, è tenuto a provare in modo puntuale e dettagliato le mansioni effettivamente svolte, la qualifica richiesta e il collegamento tra le due. È quanto ribadito dal Tribunale di Milano nella recente sentenza n. 822/2025, R.G. n. 6437/2024, pubblicata il 4 aprile 2025 (Giudice del Lavoro: dott.ssa Eleonora Palmisani), che ha riconosciuto a un lavoratore addetto alla logistica il diritto all’inquadramento nel 4° livello del CCNL Trasporto Merci e Logistica, a fronte dell’effettivo svolgimento di mansioni di carrellista, attività di controllo e gestione del magazzino, tutte richiedenti competenze tecnico-pratiche superiori a quelle previste dal livello contrattuale 6J. Il giudice, nel richiamare la costante giurisprudenza della Cassazione, ha sottolineato che il lavoratore che agisce in giudizio per ottenere un superiore inquadramento non può limitarsi ad affermare genericamente di aver svolto mansioni superiori, ma deve descrivere con precisione le attività svolte, richiamare le declaratorie contrattuali e fornire prova concreta e circostanziata, anche per mezzo di testimoni, delle sue effettive mansioni. L’onere probatorio grava interamente sul dipendente, poiché solo così è possibile procedere al confronto tra le mansioni svolte e quelle proprie del livello rivendicato. La sentenza dimostra come, in presenza di una prova coerente e ben articolata, il giudice possa accertare il diritto alle differenze retributive maturate e, se del caso, anche alla stabilizzazione del rapporto di lavoro.

  

Patto di prova nullo se non indica chiaramente le mansioni: il Tribunale di Milano condanna il datore di lavoro al risarcimento per il licenziamento illegittimo.

 Il Tribunale di Milano ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato per asserito mancato superamento del periodo di prova, accertando la nullità del patto di prova per difetto di specificazione delle mansioni. Il lavoratore, assunto come "Content Marketing Strategy", era stato licenziato dopo circa cinque mesi; nel contratto, però, mancava una chiara individuazione delle attività concrete da svolgere, che secondo la giurisprudenza consolidata deve essere esplicitata per iscritto. Il Tribunale, ha ribadito che il patto di prova, per essere valido, deve contenere una descrizione sufficientemente determinata dei compiti affidati, sia per consentire al lavoratore di organizzarsi per eseguire al meglio la prova, sia per permettere al datore di effettuare una valutazione obiettiva e coerente. L’indicazione generica di un profilo (come una job title) o il rinvio implicito a una descrizione nota solo oralmente o tramite canali informali non è sufficiente a soddisfare il requisito della forma scritta richiesto ad substantiam dall’art. 2096 c.c. Il giudice ha quindi ritenuto nullo il patto e ha applicato la tutela indennitaria prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. 23/2015, condannando il datore di lavoro al pagamento di sei mensilità di retribuzione, oltre interessi e rivalutazione, con compensazione per quanto già corrisposto a titolo di TFR e indennità di preavviso. (Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, sentenza n. 1521/2025, R.G. n. 11021/2024, pronunciata il 31 marzo 2025, Giudice dott. Giorgio Mariani).

 

Straordinario non riconosciuto: il lavoratore deve provarlo nel dettaglio, altrimenti la domanda va rigettata.

 Il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda con cui un lavoratore chiedeva il pagamento di ore di lavoro straordinario, ribadendo un principio consolidato: spetta al lavoratore fornire la prova dell’effettiva esecuzione del lavoro extra orario, nonché della sua quantità e della richiesta (o accettazione) da parte del datore di lavoro. Nel caso di specie, la pretesa è stata formulata in modo generico, senza indicazioni sufficientemente dettagliate circa i giorni, gli orari e le modalità di svolgimento delle prestazioni straordinarie. Inoltre, mancava ogni riscontro documentale o testimoniale atto a dimostrare che l’attività oltre l’orario ordinario fosse stata effettivamente resa e, soprattutto, che fosse stata necessitata o approvata dal datore di lavoro. Il giudice, dott. Giorgio Mariani, ha quindi evidenziato che in materia di lavoro straordinario il mero riferimento a un generico sovraccarico di attività o a un orario di fatto prolungato non è sufficiente: è invece necessaria una prova puntuale, coerente e riscontrabile. In assenza di tale prova, la domanda va respinta, come accaduto in questa decisione. (Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, sentenza n. 1521/2025, R.G. n. 11021/2024, pronunciata il 31 marzo 2025, Giudice dott. Giorgio Mariani).

  

Licenziamento orale: il Tribunale di Milano ordina la reintegrazione del lavoratore per violazione della forma scritta.

 Il Tribunale di Milano ha accertato che il licenziamento di un lavoratore era stato intimato in forma orale, dichiarandolo quindi inefficace e ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 23/2015. La società datrice di lavoro aveva sostenuto che il rapporto si fosse interrotto per volontà del lavoratore stesso, ma tale tesi è stata ritenuta contraddittoria e priva di fondamento. In particolare, l’azienda non è riuscita a dimostrare in quali modalità, tempi e circostanze il lavoratore avrebbe manifestato l’intenzione di dimettersi. Al contrario, il ricorrente ha fornito prova coerente dell'avvenuto licenziamento verbale, anche attraverso il modello UNILAV con cui la società aveva comunicato agli enti pubblici la cessazione del rapporto per "giustificato motivo oggettivo". Sebbene tale comunicazione non abbia valore di confessione giudiziale, il giudice l’ha ritenuta rilevante ai fini probatori, in quanto non spiegata né smentita dalla datrice di lavoro, che non ha fornito alcuna motivazione plausibile per una falsa comunicazione ufficiale. In mancanza di un atto scritto di recesso, il Tribunale ha riconosciuto l’applicazione della tutela reintegratoria prevista per il licenziamento inefficace, condannando l’azienda anche al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento fino alla reintegra e al versamento dei contributi. (Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, sentenza n. 1407/2025, R.G. n. 9578/2024, pronunciata il 25 marzo 2025, Giudice dott.ssa Camilla Stefanizzi).

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