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I diritti rinunciabili dal lavoratore sono solo quelli già entrati nel suo patrimonio

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31/03/2022

I diritti futuri non sono rinunciabili nemmeno con il verbale di conciliazione sottoscritto davanti al giudice

Un lavoratore agisce in Tribunale chiedendo la nullità del termine finale apposto al suo contratto di lavoro subordinato, assumendone l’illegittimità sebbene fosse stato sottoscritto in un verbale di conciliazione avanti l’autorità giudiziaria. Il Tribunale ha rigettato il ricorso ma la Corte di Appello di Firenze lo ha accolto, condannando il datore di lavoro al ripristino del rapporto di lavoro con il risarcimento del danno pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita.

La Corte di Appello ha giudicato nulle le rinunce effettuate dal lavoratore nell’accordo conciliativo sebbene sottoscritto avanti autorità giudiziaria in quanto aventi ad oggetto diritti (in particolare, la conversione del rapporto di lavoro al superamento del limite triennale) non ancora sorti.

Contro la sentenza ha proposto ricorso in Cassazione il datore di lavoro assumendone la erroneità in diritto. La Cassazione ha respinto il ricorso.

Per meglio comprendere il significato del principio affermato dalla Corte Suprema, occorre conoscere i fatti della controversia.

Il lavoratore ha concluso con il suo datore di lavoro un contratto di lavoro a tempo determinato in data 12.10.12, avente durata fino al 12.4.13; il contratto è stato poi prorogato fino al 30.9.15 (durata complessiva pari a tre anni meno 12 giorni); il lavoratore ritenendo illegittimo il contratto a tempo determinato ha agito avanti il Tribunale, depositando il ricorso il 5.12.15, per ottenere l’annullamento del termine apposto ai citati contratti e la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato.

Nel corso della causa avanti il Tribunale, le parti hanno raggiunto un accordo e hanno sottoscritto in data 27.7.16 il verbale di conciliazione con cui il datore di lavoro si è dichiarato disponibile ad assumere nuovamente il lavoratore ma sempre a tempo determinato dal 28.7.16 al 30.11.16. Le parti hanno così concordato che alla successiva data del 30.11.16 il rapporto di lavoro sarebbe stato consensualmente risolto, con rinuncia, da parte del lavoratore a muovere qualsiasi eccezione e ad avanzare pretese di carattere patrimoniale e non patrimoniale nei confronti del datore di lavoro. In forza di tutto ciò, il lavoratore ha anche dichiarato di rinunciare alla prosecuzione della causa relativa al contratto a termine svolto dal 2012 al 2015 e di non avere null'altro a pretendere dalla società in relazione al primo rapporto di lavoro.

Le parti, sottoscritto l’accordo conciliativo, ne hanno dato esecuzione. L’azienda ha provveduto ad assumere nuovamente il lavoratore alle sue dipendenze cessando il rapporto di lavoro alla scadenza pattuita nel verbale sottoscritto davanti al giudice.

Il lavoratore, però, dopo essere stato estromesso dall’azienda al termine pattuito nel verbale di conciliazione, ha proposto un altro e successivo ricorso in Tribunale (in data 12.11.16) con cui ha chiesto la conversione dell’ultimo rapporto di lavoro a tempo determinato (dal 28.7.16 al 30.11.16) oggetto della conciliazione giudiziale, a tempo indeterminato sostenendo la nullità dell’accordo conciliativo precedentemente intervenuto tra le parti.

Il lavoratore, a sostegno di questa sua nuova azione giudiziaria, ha sostenuto che, concluso il primo contratto a termine del 2012, prorogato fino al 30.9.15, fossero entrati nel suo patrimonio i diritti derivanti dalla illegittimità di quel contratto e quindi anche il diritto ad ottenere la conversione in rapporto a tempo indeterminato quale conseguenza della nullità del termine apposto a quel contratto e della nullità della proroga; questi erano i diritti certamente già entrati nel suo patrimonio al momento della conciliazione giudiziale e suscettibili di rinuncia; all'atto della conciliazione giudiziale non era, invece, ancora entrato nel suo patrimonio il diritto di far valere l'illegittimità che sarebbe derivata dal superamento, con la conclusione e l'esecuzione del contratto a termine del 2016, del tetto dei 36 mesi di durata.

La Corte di Cassazione ha accolto le argomentazioni difensive sostenute dal lavoratore e ha rifiutato il ricorso dell’azienda con le seguenti osservazioni in punto di diritto.

In sede di conciliazione giudiziale la società ha offerto la conclusione di un nuovo contratto a termine che avrebbe pacificamente comportato il superamento del termine di 36 mesi. Da tale contratto, o meglio dalla sua illegittimità per contrasto con l'art. 19 d.lgs. 81/2015, derivava il diritto del lavoratore a far valere la nullità del termine, per superamento dei 36 mesi, con conversione del rapporto e risarcimento del danno. Il lavoratore ha rinunciato a tale diritto non dopo averlo già acquisito ma nell'atto in cui lo acquisiva, o meglio, col proprio atto dispositivo ha impedito il sorgere di quel diritto. Difatti nel verbale di conciliazione il lavoratore ha rinunciato a muovere qualsiasi eccezione sulla base del rapporto costituito in quel momento;

L'atto dispositivo del lavoratore non ha determinato il venir meno di un diritto che era già nel suo patrimonio ma ha impedito l'insorgenza di quel diritto; per questa ragione non si è trattato di una rinuncia, che presuppone un diritto già maturato in capo al lavoratore, ma di un atto di regolazione, con cui le parti hanno regolato il loro nuovo rapporto a termine in modo difforme dalla norma imperativa, con conseguente nullità.

L'art. 2113 del codice civile. consente in sede protetta le rinunce ma non gli atti regolativi in contrasto con norme imperative; in sede conciliativa si può rinunciare a diritti già maturati ma non si possono concordare regolazioni dei rapporti contrari alle norme imperative; la sede protetta non può essere il luogo in cui si consumano le violazioni, cioè si concordano regolazioni contra legem con rinuncia a farle valere ma si può unicamente rinunciare ai diritti già maturati in conseguenza di violazioni realizzate prima e fuori da quella sede.

In questo caso con quella conciliazione si è impedito il sorgere di un diritto in capo al lavoratore così realizzando una disciplina del rapporto di lavoro in contrasto con una norma imperativa.

Né vale obiettare nel nostro caso che nel momento in cui il lavoratore ha aderito alla conciliazione in sede giudiziale aveva già maturato il diritto a far valere l'illegittimità del nuovo contratto a termine e vi poteva consapevolmente rinunciare; egli aveva maturato il diritto a far valere l'illegittimità del primo contratto per le ragioni esposte nell'impugnativa di quel contratto ma non aveva già maturato il diritto di far valere l'illegittimità da superamento dei 36 mesi, diritto che non è mai entrato nel suo patrimonio; con la conciliazione le parti sono arrivate, in sede protetta, ad escludere, illegittimamente, la regolamentazione del rapporto imposta per legge.

Il principio ribadito dalla Corte di Cassazione è un principio che tutela la parte debole del rapporto di lavoro perché gli impedisce di disporre anzitempo dei diritti che ancora non ha maturato.

Corte di Cassazione sezione lavoro sentenza numero 6664 pubblicata l’1marzo 2022.

 

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