18/02/2017
A un lavoratore è stato contestato di avere sottoscritto un documento, indirizzato alla Procura della Repubblica e al Ministero del Lavoro, con il quale venivano denunciate la utilizzazione illegittima della cassa integrazione guadagni straordinaria e altre violazioni, relative alla disciplina legale e contrattuale del lavoro straordinario, alla utilizzazione di fondi pubblici e alla normativa sulla intermediazione di manodopera.
Portata a termine la procedura di contestazione di addebito con l'ascolto delle difese del lavoratore, l'azienda ha proceduto al licenziamento disciplinare perché il comportamento consumato, per la sua gravità, era idoneo a ledere il vincolo fiduciario e ad impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro, anche in considerazione della delicatezza delle mansioni assegnate al lavoratore, che operava nel settore della produzione alimentare.
Il tribunale, prima, e la corte di appello, dopo, hanno rigettato la domanda del lavoratore, che ha impugnato il licenziamento: per questi giudici il diritto di critica non legittima il lavoratore a iniziative che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, siano idonee a ledere l’immagine e il decoro del datore di lavoro, determinando di conseguenza un possibile pregiudizio per l’impresa. Questi giudici hanno ritenuto che, nella fattispecie, detti limiti fossero stati travalicati perché sia le indagini preliminari avviate dalla Procura della Repubblica sia l’ispezione amministrativa avevano escluso la sussistenza degli illeciti denunciati.
La corte di cassazione, però, ha cassato la sentenza rinviando la causa alla corte di appello competente che, nella sua nuova pronuncia deve applicare il seguente principio di diritto: " Non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o all’autorità amministrativa competente fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell’illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti." (in tal senso Cass. 14 marzo 2013 n. 6501 e Cass. 8.7.2015 n. 14249 e, da ultimo, Cass. 27.1.2017 n. 966).
Per la Corte di Cassazione “ è da escludere che l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., così come interpretato da questa Corte in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. (fra le più recenti in tal senso Cass. 9.1.2015 n. 144), possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all’interno dell’azienda, giacché in tal caso "si correrebbe il rischio di scivolare verso - non voluti, ma impliciti - riconoscimenti di una sorta di "dovere di omertà" (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento" (Cass. n. 6501 del 2013).”
Con la pronuncia della sentenza della corte di cassazione, la corte di appello deve riesaminare i fatti e pronunciare altra sentenza uniformandosi ai principi affermati.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 4125/17; depositata il 16 febbraio