16/05/2016
Il lavoratore ha diritto alla contestazione specifica dei fatti di rilevanza disciplinare che il datore di lavoro ritiene di dovergli contestare. Le giustificazioni devono essere presentate entro 5 giorni dal ricevimento della lettera o nell’altro maggior termine eventualmente previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro. Normalmente il lavoratore presenta le sue giustificazioni in forma scritta ma può anche chiedere di presentarle in forma orale con l’assistenza del sindacato di appartenenza. Il lavoratore inoltre ben può cumulare le due forme di giustificazione, scritta e orale. La condizione richiesta dalla Corte di Cassazione è che egli ne faccia richiesta nella lettera di giustificazione che ha proposto in forma scritta.
L'eventuale sanzione disciplinare non può essere applicata prima del decorso dei termini concessi per la presentazione delle difese
“Questa Corte, con la sentenza a Sezioni Unite n. 3965 del 1994, confermata dalla sentenza a Sezioni Unite n. 6900 del 2003 (cui aderisce Cass., n. 1884 del 2012), ha affermato il principio secondo cui il termine di cinque giorni dalla contestazione dell'addebito, prima della cui scadenza è preclusa, ai sensi dell'art. 7, comma 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, la possibilità di irrogazione della sanzione disciplinare, ivi compreso il licenziamento, è funzionale soltanto ad esigenze di tutela dell'incolpato, in quanto tende ad impedire, in quest'ultimo caso, che la sua estromissione dal luogo di lavoro possa avvenire senza che egli abbia avuto la possibilità di raccogliere e fornire le prove e gli argomenti a propria difesa. Ne consegue che, ove il lavoratore abbia fornito le sue giustificazioni prima della scadenza suddetta, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive, nulla più osta qualora il datore di lavoro ritenga di doversi in tal senso determinare, all'immediata irrogazione della sanzione, senza che sia, a tal fine, necessario attendere il decorso della residua parte del termine.” Corte di cassazione, sentenza 22 aprile 2016 n. 8180.
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