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L’inpgi condannata a pagare subito l’ex fissa dei giornalisti pensionati

La sentenza è stata pronunciata dal Tribunale di Roma

 

Con ricorso avanti  il Tribunale di Roma un giornalista ha chiesto la  condanna dell’INPGI al pagamento immediato, in suo favore, della somma di €. 81.468,09  oltre interessi. Il giornalista aveva lavorato alle dipendenze di un giornale dal 1/05/1979 al 30/11/2012, versando i contributi relativi alla previdenza integrativa, a favore dei giornalisti cessati dal rapporto di lavoro, gestita dall’INPGI.

In seguito alla domanda di conseguimento dell’accantonamento, l’INPGI ha ammesso di essere creditore della somma, senza, tuttavia, procedere all’erogazione sostenendo di non essere in grado di evadere la domanda in questione, perché il Fondo versava in condizione di grave sofferenza e passività di bilancio tali da non consentirgli il pagamento richiesto.

L’INPGI, assumeva a sua difesa l’esonero dall’obbligo di corrispondere le prestazioni in assenza della necessaria disponibilità finanziaria” e l’accordo tra FNSI e FIEG, che nell’ambito di una serie di misure destinate a soddisfare, per il futuro, l’equilibrio finanziario del Fondo, pur confermando i diritti di coloro che, avendoli maturati, avessero presentato la domanda entro l’entrata in vigore dell’accordo medesimo, ne hanno previsto la soddisfazione rateale in un periodo indicativo di 12 anni.

Il tribunale di Roma Sezione III Lavoro  con sentenza n. 5978/2015 ha respinto tutte le eccezioni difensive dell’Inpg  .

Si tratta  di una decisione motivata in modo completo e assolutamente convincente.

Nell’affermare il corretto principio della legittimazione passiva di Inpgi, la sentenza sopra citata osserva che il Fondo non ha personalità giuridica distinta da quella dell’Inpgi, non ha propri organi e dunque si identica in toto con l’Inpgi stesso.

Dice testualmente a tale proposito la sentenza del tribunale di Roma:

Mancano chiaramente i presupposti necessari per attribuire allo stesso una propria distinta soggettività giuridica... Al fine della configurabilità di un ente di fatto, occorre che questo abbia un suo proprio patrimonio ad autonomia patrimoniale propria: ossia, da un lato, abbi  attitudine ad acquisire diritti ed assumere obblighi di natura patrimoniale in nome proprio; dall’altro, eserciti  in autonomia il potere di acquisire risorse per destinarle ai propri scopi (Cass. 4316/2001; Cass, 11223/1998 ).Tali requisiti fanno difetto palesemente giacché la convenzione si limita a dire che il Fondo è gestito dall’Inpgi e non lo dota nemmeno di propri organi. Appare pertanto evidente che il debitore è e non può essere che l’Inpgi“.

 Si può dire che il Fondo costituisca un “patrimonio separato” ai sensi dell’art. 2740 comma II cod. civ? Anche su tale  possibile configurazione del Fondo  risponde la sentenza del Tribunale di Roma che argomenta con grande correttezza giuridica nel modo seguente:

“Il fatto che l’art. 9 chiarisca che il Fondo è gestito dall’Inpgi con contabilità separata, e l’art. 6 comma VI parli di “completa autonomia del Fondo” può forse… giustificare l’affermazione che il Fondo costituisca un “patrimonio separato“ dall’Inpgi (fenomeno che si ha quando ad un stesso soggetto si danno, appunto, “patrimoni separati“ ossia sottratti alla regola generale della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 cod. civ. in relazione all’esistenza di vincoli di destinazione (Cass. 10885/2°15; Cass. 21494/2011), e la conseguenza che il creditore del Fondo non possa soddisfarsi che su tale patrimonio, e non sulla generalità delle risorse dell’Istituto”, ma non che l’Inpgi non sia debitore delle prestazioni.L’eventuale qualificazione del Fondo in questione come “patrimonio separato“ non  porta, dunque, ad escludere la legittimazione dell’Inpgi stesso.

Il Tribunale lavoro Roma nella sentenza n. 5978/2015 affronta anche il problema dell’interpretazione dei commi 5 e 6 dell’art.6 della Convenzione 8 giugno 1994. Anche questa ipotesi è lucidamente inquadrata, analizzata e risolta dalla sentenza Tribunale di Roma che così correttamente argomenta:

“Vi è qui un contratto tra stipulanti (oo.ss.) e promittente (Inpg) con il quale l’ultimo assume una obbligazione a favore di un terzo (il prestatore) e la pattuizione diviene irrevocabile una volta che questi abbia dichiarato di volerne profittare. Non a caso tale tipologia è stata riscontrata in casi sostanzialmente analoghi, quali l’assicurazione sociale privata integrativa del TFR nel regime previgente la riforma del 1982 (Cass. 3127/83). Essendo persino negata, in tale caso, la necessità della dichiarazione di volerne profittare.  La clausola posta dall’art. 6 comma 6 non può, dunque, avere altro significato che quella di una mera clausola di esonero della responsabilità. La clausola, intesa nel senso di esonerare l’Istituto da ogni obbligazione per ragioni di mera illiquidità a prescindere da condizioni soggettive, appare nulla per violazione dell’articolo 1229, co.1, c.c. che vuole nulle le clausole di esonero da responsabilità per dolo o colpa grave. Ammesso che ne sia possibile una interpretazione conservativa, nel senso che essa operi solo in caso di illiquidità incolpevole o causata da colpa lieve, la clausola non potrebbe operare in caso di colpa grave, quale appare ricorrere nella specie. Come si è premesso, l’art.6, co.3 della convenzione obbligava l’Inpgi a sorvegliare la liquidità della gestione, ed a segnalare immediatamente agli stipulanti le necessità di reintegro, precisando, sulla base di apposita documentazione presentata al Comitato di gestione, la somma necessaria e l’ente o gli enti tenuti al reintegro. Orbene, sebbene l’Inpgi stesso assuma di essere in crisi di liquidità da almeno 4 anni, non consta che esso abbia mai assolto all’obbligo di chiedere il reintegro della liquidità, tanto meno con le modalità previste dall’art. 6, co. 3, limitandosi a comunicare mensilmente agli stipulanti le somme erogate e le pratiche giacenti, e, a deliberare, nel dicembre 2010, infruttuosamente, per mancata approvazione dei Ministeri vigilanti, un prestito al Fondo integrativo a rivalersi sulle aziende interessate. Peraltro, la più “antica” comunicazione, quella del 5/7/2010, dava già atto di 427 giacenze, per pendenze già allora ammontanti a oltre 46 milioni di euro (v. delibera del 14 dicembre 2010) contro appena 102 pratiche liquidate, il che, considerato che di li in poi le giacenze sono aumentate di poche decine al mese, rende evidente che la situazione di illiquidità risaliva ad epoca bene anteriore, e, solo aggravata dalla congiuntura, trovava causa nella totale mancanza di strumenti di  programmazione atti a consentire la tempestiva verifica dell’adeguatezza delle entrate in rapporto alle uscite.

Di ciò dà conferma la ridetta delibera del 14 dicembre 2010, che afferma che la crisi del settore dell’editoria aveva ”comportato un ulteriore differimento temporale nell’erogazione delle prestazioni rispetto alla relativa maturazione”, i cui tempi di attesa erano ormai (già allora) di circa 5 anni. Il che significa che c’erano già, nel 2010, pendenze per il liquidità dal 2005/2006, eppure nulla era stato fatto fino ad allora per dotare il Fondo della liquidità necessaria a soddisfare i diritti che andavano a maturare.

A prescindere da tale, peraltro assorbente, considerazione, si deve osservare che poiché le prestazioni previste dall’articolo sono prestazioni/diritti individuali, qui corrispondono obblighi individuali, la clausola posta all’art.6, co.6, che esonera l’Istituto dall’obbligo di corrispondere le prestazioni in assenza della necessaria disponibilità finanziaria, non può operare, come correttamente dedotto dalla difesa del [ricorrente],  che nel caso in cui il Fondo non abbia la disponibilità finanziaria necessaria a soddisfare quello specifico diritto, e non pure, come si pretende, nel caso in cui, non essendovi liquidità sufficiente a soddisfare tutti i diritti maturati, si pretenda di poter opporre ad ogni singolo creditore l' impossibilità di soddisfarli tutti, salvo pagare qualcuno secondo criteri di priorità tanto ragionevoli quanto non previsti dall’ accordo, e come tali inopponibili ai singoli, che hanno quindi pieno diritto di far valere in giudizio crediti già maturati ed esigibili secondo l’art.9 del Regolamento.

 L’Inpgi non ha dedotto, e nemmeno provato, di non aver la liquidità necessaria a soddisfare il credito del [ricorrente], ma pretende che il credito di questi non sia esigibile solo perché, versando il Fondo in situazioni di insolvenza (perché tant’è), ritiene di dover pagare prima creditori anteriori. Ma al di fuori delle procedure concorsuali e degli altri casi in cui ciò è previsto dalla legge, il debitore insolvente non può pretendere di paralizzare la pretesa creditoria altrui per un credito esigibile, per ragioni afferenti criteri di ”par condicio” non fondate sulla legge o sul contratto. Il titolare di un credito esigibile ha insomma diritto a farlo valere in giudizio, a nulla rilevando che la generalità degli altri creditori tende ad adeguarsi alla prassi del debitore insolvente di pagarli secondo un certo ordine, certo equo, ma da lui solo stabilito”.

Sentenza tribunale di Roma sezione lavoro 5978/2015. 

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Il potere disciplinare del datore di lavoro

  Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. La multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni. In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa. Articolo 7 dello statuto dei lavoratori

La contestazione non può essere ripetuta.

Si deve  escludere che il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, lo possa esercitare una seconda volta per quegli stessi fatti, in quanto ormai consumato: essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonché dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati per la globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati. Sentenza Cassazione del 30 gennaio 2018.  

Impugnazione della sanzione. Ferma restando la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi la costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell'ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio. Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il datore di lavoro adisce l'autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio. Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione. Art 7 dello Statuto dei lavoratori