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Prende dal banco la birra, il couscous e un prodotto da forno, costo complessivo di euro 8, che consuma sul posto, licenziato!

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28/12/2021

La Cassazione conferma la espulsione dal posto di lavoro ma gli conferma le 12 mensilità di retribuzione a titolo di risarcimento

La Esselunga, quale datore di lavoro, ha contestato ad un suo dipendente di aver prelevato alcune bottiglie di birra, del cous cous ed un prodotto da forno - poi consumati in loco. All’esito della procedura di contestazione di addebito, ha licenziato il lavoratore per giustificato motivo soggettivo. Oltre ad intimare il licenziamento, l’azienda ha anche denunciato il lavoratore per appropriazione indebita aggravata con esposto alla Procura della Repubblica.

La Corte di Appello di Bologna, in parziale riforma della decisione resa dal locale Tribunale, ha dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato. Dichiarava , per l'effetto, risolto il rapporto di lavoro intercorso fra le parti e condannando la Esselunga S.p.A. al pagamento, in favore del reclamante, di una indennità risarcitoria in misura pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, La Corte di Appello non ha ritenuto che il fatto contestato abbia potuto ledere in modo irreparabile il vincolo fiduciario tra le parti e nemmeno che il fatto contestato fosse tale da giustificare il licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Conseguentemente, ha ritenuto il licenziamento illegittimo ma sussistendo il fatto di rilevanza disciplinare, applicando la legge, ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro ma con il diritto del lavoratore ad avere il risarcimento dei danni nella misura delle 12 mensilità di retribuzione.

La Corte di Appello ha ritenuto che il comportamento del lavoratore si configurasse come inadempimento degli obblighi posti a suo carico e, pertanto, raffigurava un atteggiamento antigiuridico passibile di sanzione disciplinare, alla luce del divieto di "consumare generi alimentari o bevande alcoliche" come descritto dalle norme disciplinari affisse in bacheca, nonché dell'infrazione ivi riportata, consistente nella "appropriazione di beni e merci aziendali anche se al mero fine del consumo personale sul luogo di lavoro", ma ha escluso la proporzionalità della sanzione del licenziamento; escludendo la proporzionalità ha dichiarato illegittimo il licenziamento ma senza il diritto alla reintegrazione e con il solo diritto al risarcimento del danno che la legge prevede da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità di retribuzione. Nel caso in esame ha fissato questo risarcimento in 12 mensilità, il minimo.

Entrambe le parti in causa hanno fatto ricorso in Cassazione contro questa decisione ma le due contrapposte impugnazioni sono state respinte.

La Corte di Cassazione ha respinto preliminarmente l’istanza dell’azienda diretta ad ottenere la sospensione del giudizio in attesa che fosse definito il procedimento penale contro il lavoratore per la sottrazione della merce. Ma la Corte di Cassazione, ricorrendo al concetto dell’autonomia del giudizio civile da quello penale, ha respinto la richiesta. Per la Cassazione “la sospensione necessaria del processo civile, in attesa del giudicato penale, può essere disposta solo se una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile ed a condizione che la sentenza penale possa avere, nel caso concreto, valore di giudicato nel processo civile ; perché si verifichi tale condizione di dipendenza tecnica della decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non è sufficiente, quindi, che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l'effetto giuridico dedotto in ambito civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto dell'imputazione penale e, come è evidente, tale circostanza non ricorre nel caso di specie nel quale va confermata l'autonomia dei due giudizi.”

Esaminando le lamentele di entrambe le parti sulla violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte di Appello, la Cassazione ha respinto entrambi i ricorsi perché entrambi i motivi in realtà hanno inteso censurare nel merito la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di Appello ma su questa ricostruzione la Cassazione non ha alcun potere di intervento se non negli specifici e limitati casi previsti dalla legge.

L’interpretazione di una norma aperta non si sottrae certamente al controllo della Corte di Cassazione ma nel caso specifico “appare evidente che le censure, veicolate per il tramite dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, in realtà corrono lungo i binari della censura fattuale in quanto mirano ad una diversa ricostruzione della fattispecie oltre che ad una inammissibile diversa valutazione delle risultanze istruttorie di primo grado;

-entrambe le parti, pur denunciando, apparentemente, una violazione di legge, chiedono, in realtà, alla Corte di pronunciarsi sulla valutazione di fatto compiuta dal giudice in ordine alle conclusioni raggiunte con riguardo alla gravità della lamentata infrazione che avrebbe determinato, secondo l'una, il rimedio espulsivo, secondo l'altra, invece, l'insussistenza dei presupposti per l'applicazione della sanzione;

- in realtà entrambe si limitano a criticare sotto vari profili la valutazione compiuta dalla Corte d'Appello, con doglianze intrise di circostanze fattuali mediante un pervasivo rinvio ad attività asseritamente compiute nelle fasi precedenti ed attinenti ad aspetti di mero fatto, tentandosi di portare di nuovo all'attenzione del giudice di legittimità una valutazione di merito, inerente il contenuto dell'accertamento compiuto circa il fatto commesso, la posizione del lavoratore all'interno dell'impresa, l'insussistenza di precedenti nonostante il lungo periodo di attività alle dipendenze dell'Esselunga, il carattere del tutto isolato dell'infrazione ascritta, le modalità di svolgimento della stessa,,(, la tenuità del valore dei beni sottratti e consumati (pari a circa otto Euro) così come ampiamente argomentati dal giudice di secondo grado:”

La Cassazione ha concluso il suo ragionamento giuridico ribadendo che “spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo”.

Per ottenere la riforma di una sentenza “sotto il profilo del vizio di sussunzione”, la parte che lo fa “non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento o, per il caso che qui interessa, anche al giustificato motivo soggettivo”.

La Cassazione ha così rigettato gli opposti ricorsi delle parti, datore di lavoro e lavoratore, avendo avuto la pretesa contra legem di vedersi accolta la loro diversa ricostruzione dei fatti di causa, contrapposta l’una con l’altra. Le spese processuali, in ragione della reciproca soccombenza, sono state compensate ma con l’obbligo di pagare il doppio del contributo di iscrizione a ruolo della causa a favore dell’erario pubblico.

Cassazione sezione lavoro, Ordinanza 19 novembre 2021 n. 35581.