31/01/2024
Una lavoratrice, con mansioni di operaia e inquadramento nel livello A del contratto collettivo del settore chimico piccola industria, con sede di lavoro a Firenze, ha ricevuto dalla datrice di lavoro la comunicazione del suo trasferimento alla sede di Massa, resosi necessario a seguito di una vacanza di posto in quella sede e della contestuale esigenza aziendale di ridurre il personale a Firenze.
La lavoratrice, ritenendo di non poter accettare il trasferimento per ragioni economiche e familiari, nonché per l’impossibilità di recarsi quotidianamente a Massa (a causa della distanza da Firenze, del tempo di percorrenza per gli spostamenti da casa al lavoro e del costo giornaliero dei mezzi pubblici, che avrebbe dovuto necessariamente utilizzare non avendo la patente), si è dimessa per giusta causa, senza tuttavia impugnare formalmente il trasferimento.
Dopo le dimissioni, ha presentato all’INPS domanda per il riconoscimento dell’indennità di disoccupazione Naspi, ritenendo di possedere i necessari requisiti assicurativi e contributivi. Tuttavia, l’INPS ha respinto la richiesta, motivando il diniego con il fatto che la lavoratrice non aveva contestato il trasferimento, né documentato la volontà di farlo.
La lavoratrice, ritenendo illegittimo il rigetto da parte dell’istituto previdenziale, ha adito il Tribunale di Firenze, chiedendo il riconoscimento della Naspi. A sostegno della sua richiesta, ha sostenuto che la sua situazione fosse assimilabile a quella di un lavoratore che risolva consensualmente il rapporto di lavoro a seguito di un trasferimento in una sede aziendale distante più di 50 km dalla propria residenza e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più con i mezzi pubblici. Per questa fattispecie, l’INPS – come riconosciuto in diverse sue circolari – ha ammesso il diritto alla Naspi.
Secondo la lavoratrice, tale diritto le spettava, in quanto le sue dimissioni non erano frutto di una scelta libera, bensì determinate da un comportamento altrui idoneo a integrare la condizione dell’improseguibilità del rapporto di lavoro.
Il Tribunale di Firenze ha respinto il ricorso, ritenendo insussistente la giusta causa delle dimissioni. In particolare, ha osservato che la lavoratrice non aveva contestato la legittimità del trasferimento, né aveva messo in discussione le esigenze tecnico-produttive alla base della decisione aziendale. Secondo il tribunale, la risoluzione del rapporto di lavoro non era quindi conseguenza di un comportamento illegittimo del datore di lavoro, bensì di una scelta personale della lavoratrice.
La Corte di Appello di Firenze, criticando il ragionamento del giudice di primo grado, ha riformato integralmente la sentenza, riconoscendo alla lavoratrice il diritto alla Naspi.
La Corte ha motivato la decisione affermando che:
“L’art. 3 del D.Lgs. 22/2015 garantisce la prestazione di cui è causa ai lavoratori ‘che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione’. Atteso il chiaro tenore testuale della norma, deve quindi ritenersi che vi sia diritto alla prestazione ogniqualvolta la risoluzione del rapporto di lavoro sia riconducibile non a una libera determinazione del lavoratore, ma a un fatto altrui – normalmente del datore di lavoro – idoneo a rendere impossibile la prosecuzione del rapporto."
La Corte ha inoltre chiarito che la legge non richiede che il comportamento del datore di lavoro sia illegittimo per riconoscere il diritto alla Naspi. Infatti, la prestazione è concessa anche in caso di licenziamento per giusta causa, pur se legittimamente intimato.
"Ciò detto, non può dubitarsi che l’esercizio, anche legittimo, dei poteri datoriali possa determinare modifiche essenziali del rapporto di lavoro, rendendo sostanzialmente impossibile per il lavoratore proseguirne l’esecuzione. Questo può avvenire, ad esempio, in caso di mutamento rilevante della sede di lavoro o dei turni di servizio."
Secondo la Corte, il trasferimento della lavoratrice a Massa ha rappresentato una modifica unilaterale e sostanziale di un elemento essenziale del rapporto di lavoro. Pertanto, la risoluzione del rapporto non può essere considerata una scelta volontaria della lavoratrice, bensì un effetto del potere organizzativo del datore di lavoro.
La Corte ha richiamato anche la circolare INPS n. 142/2012, la quale prevede il riconoscimento dell’indennità di disoccupazione (e, per analogia, della Naspi) nei casi in cui il lavoratore risolva consensualmente il rapporto di lavoro a seguito di un trasferimento in una sede distante oltre 50 km dalla residenza o raggiungibile in più di 80 minuti con i mezzi pubblici.
"Sembra al collegio che, come correttamente argomentato dalla difesa attrice, tale fattispecie sia, ai fini di interesse, del tutto identica a quella di causa. Nell’uno e nell’altro caso, infatti, a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro risulta essere l’esercizio dei poteri organizzativi datoriali. La circostanza che il fatto giuridico produttivo della risoluzione sia un accordo o una manifestazione di volontà del lavoratore non muta la relazione causale tra la fine del rapporto e l’atto di esercizio dello jus variandi."
Dimostrato che:
la Corte di Appello ha riconosciuto la disoccupazione della lavoratrice come involontaria e ha condannato l’INPS a corrisponderle la Naspi, oltre a farsi carico delle spese processuali per entrambi i gradi di giudizio.
📌 Sentenza: Corte di Appello di Firenze, sezione lavoro, sentenza n. 258, pubblicata il 2 ottobre 2023.