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Condannata l’azienda per straining e non per mobbing

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21/01/2024

Il Tribunale di Milano, accogliendo la domanda di una lavoratrice, ha condannato l’azienda al risarcimento del danno da demansionamento (pari al 30% della retribuzione percepita dal 2007 al 2018 e al 70% della retribuzione relativa al periodo successivo e fino alle dimissioni) e del danno biologico (valutato in 6 punti percentuali e con personalizzazione al 40%, oltre che per inabilità temporanea), nonché alla corresponsione della indennità sostituiva del preavviso in ragione della giusta causa delle dimissioni rassegnate dalla dipendente. Prima di essere dequalificata nell’assegnazione delle mansioni, la lavoratrice era pacificamente responsabile di un servizio, aveva responsabilità manageriali e disponibilità di collaboratori che a lei riportavano, con budget da raggiungere e con autonomia nelle relazioni esterne. Dopo aver chiesto di avere la trasformazione del contratto di lavoro da full time a part time si è vista immediatamente togliere ogni responsabilità di tipo manageriale venendole tolta ogni autonomia nello svolgimento dei suoi compiti. Dopo un ulteriore periodo di assenza per maternità, la lavoratrice è stata assegnata ad una struttura la cui responsabile era stata in precedenza una sua sottoposta.

La lavoratrice ha proposto parziale Appello contro la sentenza che non aveva ritenuto sussistente il mobbing, sostenendo che il suo progressivo demansionamento facesse parte di una più ampia strategia aziendale volta al suo allontanamento dall’azienda essendo divenuta in modo specifico destinataria di "aggressioni verbali, urla, violazione della privacy (mediante lettura della posta), privazioni di strumenti di lavoro (pc e telefono aziendale)". Il tutto con comportamenti vessatori e mortificanti e conseguenze devastanti sulla sua salute psico-fisica e sulla sua condizione patrimoniale e lavorativa.

La Corte di Appello ha rigettato l’impugnazione della lavoratrice confermando la sentenza del Tribunale. Per la Corte di Appello il comportamento tenuto dall’Azienda nei confronti della lavoratrice (di cui il demansionamento rappresentava solo un aspetto) non costituiva mobbing, per difetto di intento persecutorio. Il comportamento datoriale ha però causato un “danno alla salute ed all'integrità psicofisica della stessa". Il risarcimento del danno alla salute le è dovuto quale conseguenza della complessiva condotta datoriale, non limitata al demansionamento (i cui effetti lesivi sono stati oggetto di autonomo ristoro) ma allargata per la violazione dell'art. 2087 c.c. 

La Corte d’Appello non ha riconosciuto l’esistenza del mobbing, per non aver dato la lavoratrice la prova di un disegno persecutorio nei suoi confronti, ritenendo, invece, che l’azienda avesse posto in essere un progressivo e generalizzato svuotamento delle mansioni, con la conseguente responsabilità risarcitoria connessa a questa particolare condotta.

La lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo l’erroneità della sentenza e insistendo sempre sul mobbing.

La Cassazione ha respinto il ricorso per i seguenti motivi:

1.“Si può ritenere che è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima (e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell'ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell'art. 2087 c.c. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all'art. 1225 c.c. per il caso di dolo; è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie. Ai fini della configurabilità di una ipotesi di "mobbing", non è condizione sufficiente l'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.

2, in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di "mobbing", per l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell'art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi”. Cass. civ, sez. lav., Ordinanza 18 ottobre 2023, n. 28923.

La Cassazione, rigettando il ricorso della lavoratrice l’ha condannata al pagamento delle spese processuali a favore dell’azienda che sono state liquidate nella somma complessiva di euro 14.791,20; importo che mal si concilia con una Repubblica fondata sul lavoro e con l'articolo 24 della Costituzione che tutela l'azione giudiziaria dei meno abbienti. Un importo simile posto a carico di un lavoratore subordinato, che vive del suo lavoro, in una controversia giudiziaria avanti la sezione lavoro, appare veramente eccessivo e ingiustificato.

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