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Perseguitato perché si iscrive al sindacato, azienda condannata al risarcimento dei danni per mobbing

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25/01/2018

Cassazione sezione lavoro sentenza n. 30.606 del 20 dicembre 2017

English Version

Un lavoratore ha agito avanti il tribunale assumendo di essere stato vittima di una complessiva condotta di mobbing. Il tribunale ha ritenuto sussistente il Mobbing aziendale perché è stato dimostrato nella causa che il lavoratore aveva subito le vessazioni aziendali per essersi rivolto all'organizzazione sindacale per la tutela dei suoi interessi. In conseguenza della iscrizione al sindacato, l'azienda lo aveva spostato di reparto, aveva adottato una pluralità di sanzioni disciplinari ingiustificate, lo aveva emarginato con isolamento nell'ambito del lavoro. Il tutto al fine di indurlo a rassegnare le dimissioni, così come in effetti è avvenuto. Il tribunale ha riconosciuto al lavoratore a titolo di risarcimento dei danni la somma di euro 23.328 per la menomazione permanente subita alla sua salute, la somma di euro 5165 a causa del periodo di inabilità temporanea, la somma di euro 4200 per la perdita delle provvigioni nel periodo in cui non ha potuto prestare la sua attività lavorativa a causa delle lesioni subite e la somma di euro 801 a titolo di rimborso per le spese di assistenza medico-legale sostenute. La corte di appello ha confermato la sentenza di condanna del tribunale. L'azienda ha proposto ricorso in cassazione. La cassazione ha respinto il ricorso affermando che i giudici di merito, nel decidere la controversia, avevano fatto rigorosa applicazione dei principi giurisprudenziali in materia così sintetizzati:
"La Corte territoriale si è attenuta, infatti, nell'esame della fattispecie, ai parametri normativi elaborati in tema di "mobbing" dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 17.2.2009 n. 3785 e da ultimo ribadita da Cass. 6.8.2014 n. 17698 ) secondo cui "ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi: b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi. In tema di onere della prova, poi, la Corte di merito si è adeguata, facendone corretta applicazione, al criterio in virtù del quale incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l'uno e l'altro, mentre se vi sia stata prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi". Cassazione sezione lavoro numero 30.606 del 20 dicembre 2017.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La donna nella Grecia classica e dintorni

Da Ippocrate in poi, molte teorie venivano formulate dalla medicina greca a proposito della capacità riproduttiva della donna, ed alcune erano estremamente fantasiose.

Si pensava infatti che l’utero “vagasse” per il corpo femminile se la donna non aveva rapporti e che quindi l’unico rimedio fosse il matrimonio. 

Nel frattempo, alcuni medici consigliavano di legare la donna su una scala a testa in giù e scuoterla finché l’utero non fosse ritornato nella sua sede naturale; oppure, se era arrivato al cervello, si cercava di farlo scendere facendo annusare alla malcapitata sostanze maleodoranti.  E così via.

La donna nubile era considerata con malevolenza all’interno della famiglia, in cui non aveva un ruolo preciso; solo sposandosi, acquisiva uno status sociale consono.

 Anche il pensiero filosofico non era da meno riguardo alla differenza di genere: lo stesso Platone (considerato impropriamente paladino della parità tra maschio e femmina) riteneva che, per la teoria della reincarnazione, se un essere di sesso maschile operava male nella vita si sarebbe ritrovato dopo la morte ingabbiato in un corpo femminile. 

 Ad Atene, pur essendo il matrimonio monogamico, l’uomo poteva avere ben tre donne: la moglie, che gli assicurava la legittimità dei figli, una concubina ed una etera, che lo accompagnava nei banchetti pubblici ed era in grado di conversare di svariati argomenti.  La moglie, anche se non era relegata in casa, non aveva occasione di intessere relazioni sociali, ma era isolata nell’ambito della famiglia, priva di una vera educazione e di possibilità reali di socializzazione.

Anche ai giorni nostri, le donne devono fronteggiare sul lavoro il mobbing e la discriminazione di genere. Non è difficile comprendere perché ciò possa avvenire, considerati anche questi precedenti storici dei nostri antenati scientifici, letterari e filosofici che, pur nella loro cultura, hanno sempre attribuito alla donna un ruolo marginale e di sottomissione.

 

Nella foto: vaso greco che raffigura la nascita di Bacco dalla coscia di Zeus; aspirazione all'autosufficienza maschile. Opera esposta nel museo nazionale archeologico di Taranto.