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Anche se in galera il lavoratore non può essere licenziato liberamente

devono sussistere i giustificati motivi

Un’impresa, procedeva alla risoluzione del rapporto di lavoro con un dipendente addetto a mansioni di guardiania. La società giustificava il licenziamento per giustificato motivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966”, ritenendo che l’assenza determinata dalla situazione di custodia cautelare in cui versava il dipendente, non avente una data certa di cessazione, imponeva l’immediata sostituzione per una turnazione di lavoro a ciclo continuo che non consentiva scoperture.” Con sentenza del 25 luglio 2011 la Corte di Appello di Napoli ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento con le conseguenze previste dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito richiamandosi al principio giurisprudenziale “secondo il quale la carcerazione preventiva del lavoratore per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro non costituisce inadempimento di obblighi contrattuali ma integra un fatto oggettivo determinante una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, in relazione alla quale la persistenza o meno nel datore di lavoro di un interesse apprezzabile a ricevere le ulteriori prestazioni del lavoratore detenuto deve essere valutata alla stregua di criteri oggettivi, riconducibili a quelli fissati nell’ultima parte dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966. Nella specie i giudici di appello hanno ritenuto, sulla base di un giudizio ex ante, che le dimensioni dell’impresa, il tipo di organizzazione tecnico-produttiva in essa attuato, la natura delle mansioni del lavoratore detenuto, nonché il limitato periodo di assenza maturato, non rappresentassero circostanze idonee a definire un giudizio di intollerabilità dell’assenza e pertanto a giustificare l’irrogazione del provvedimento espulsivo”. Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 29 ottobre – 19 dicembre 2014, n. 26954.

 

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L'AVVOCATURA STRUMENTO DEI DIRITTI E DELLA LIBERTA' 

La professione di avvocato incide nel campo della libertà, della sicurezza, della giustizia e, in modo più ampio, sulla protezione dello Stato di diritto. Essa si esercita con autonomia e indipendenza, dignità ed onore, segretezza professionale e lealtà, al fine di tutelare i diritti e gli interessi della persona nei confronti tanto dei privati quanto dei pubblici poteri, contribuendo così alla applicazione delle leggi ed alla corretta amministrazione della giustizia. In una società democratica l’Avvocatura rappresenta un baluardo normativo nella difesa dell’interesse pubblico al perseguimento della giustizia. L’avvocato, dunque, non è mero prestatore di servizi, in un’ottica di puro mercato; il suo é un impegno professionale e sociale, perché al di là del singolo caso concreto, che vede protagonisti le parti del processo, vi sono regole e principi generali che compongo l’ordinamento giuridico, sul cui rispetto è fondata la pacifica convivenza di tutti. Come scriveva l’illustre giurista, e Costituente, Piero Calamandrei: “Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore. Ma l’avvocato no. (…) L’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. L’avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di caritàPer questo amiamo la toga: per questo vorremmo che, quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero: al quale siamo affezionati perché sappiamo che esso ha servito a riasciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso: e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia”. L’avvocato è strumento stesso della giustizia, nella misura in cui avvicina chi ha subito un torto al giudice, che è chiamato a fornire il giusto rimedio di legge. Avv. Paolo Gallo