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Attenzione alle conciliazioni, L'inps come un lupo é sempre in agguato per presentare il conto

I contributi previdenziali non appartengono alla libera negoziazione delle parti

Il fatto.

Un lavoratore promuove un giudizio contro il datore di lavoro per ottenere il pagamento di differenze retributive.

Il datore di lavoro per evitare il rischio di lite, decide di conciliare la controversia impegnandosi a corrispondere un certo importo a titolo di incentivo all'esodo, per la cessazione del rapporto di lavoro.

L'inps assume la natura retributiva di questo importo e lo sottopone a contribuzione con gli interessi e le sanzioni.

Il tribunale e la corte di appello accolgono le eccezioni difensive del datore di lavoro e dichiarano la infondatezza della pretesa dell'inps.

La corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi su ricorso dell'inps, ha ribaltato la sentenza dichiarando che quelle somme sono da sottoporre a contribuzione.

La sentenza della cassazione nel suo ragionamento giuridico é calzante e ben motivata.

Le imprese conciliando le loro controversie tante volte si inducono a farlo perché su quelle somme sono convinte di non dover pagare i contributi previdenziali.   


Questo affidamento però può essere fallace e foriero di guai.

Nel conciliare le controversie occorre usare diligenza e accortezza adoperando procedure e parole appropriate e tali da poter resistere a qualsiasi attacco esterno.Riportiamo la sentenza della cassazione nella sua motivazione che sicuramente é da condividere, anche se in modo amaro da chi ama conciliare le controversie.

Ecco la sentenza.

"...va osservato che l'art. 12 legge n. 153 del 1969 nella sua originaria formulazione, applicabile alla fattispecie ratione temporis, stabiliva che, "per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in danaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro". Restavano escluse dalla retribuzione imponibile le somme corrisposte al lavoratore per i titoli tassativamente elencati nella stessa norma. A sua volta, l'art. 4, comma 2 bis, decreto legge 30 maggio 1988, n. 173, conv. in legge 26 luglio 1988, n. 291, ha previsto che "la disposizione recata nel secondo comma, numero 3), del testo sostitutivo di cui all’articolo 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, va interpretata nel senso che dalla retribuzione imponibile sono escluse anche le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori".

La retribuzione, considerata dal legislatore ai fini contributivi, non coincide con quella generalmente data ai fini della disciplina del rapporto di lavoro subordinato (art. 2099 c.c.), tant'è che il legislatore (il quale, non a caso, nel capoverso dell'art. 12 usa l'espressione "si considera retribuzione") - con la locuzione "tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di lavoro" - ha adottato il principio di causalità, ampliando sostanzialmente il normale concetto di retribuzione, poiché il concetto di retribuzione imponibile, di cui al citato art. 12, supera il principio di corrispettività, dal momento che comprende non soltanto gli emolumenti corrisposti in funzione dell'esercizio di attività lavorativa, ma anche gli importi, che, pur senza trovare riscontro in una precisa ed eseguita prestazione lavorativa, costituiscono adempimenti di obbligazioni pecuniarie imposte al datore di lavoro da leggi o da convenzioni nel corso del rapporto di lavoro ed aventi titolo ed origine dal contratto di lavoro, restando escluse le erogazioni derivanti causa autonoma (Cass. Sez. Un. n. 3292 del 1985). Nel contempo il legislatore ha indicato le ipotesi eccettuative, per modo che al di fuori di esse non ne sono ammesse altre. Infatti, l'elencazione da parte dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969 degli emolumenti esclusi, in tutto o in parte, ai fini del computo dei contributi previdenziali ha carattere esplicitamente tassativo e non sono quindi ammissibili analogie ed equiparazioni, se non nei limiti puntualmente individuati da successive disposizioni. Ne risulta, perciò, un sistema di chiusura, che, mentre consente al giudice di merito di verificare se gli emolumenti (previsti dalla contrattazione collettiva o individuale, o concessi unilateralmente dal datore) rientrano nel concetto di retribuzione previdenziale, come voluto dal legislatore, impedivolontà,negozio,sce alle parti (collettive o individuali) di attribuire direttamente ad un emolumento natura difforme da quella conferita ex lege mediante previsioni o denominazioni, comunque simulate, essendo riservata al giudice la facoltà di accertare la concreta funzione svolta dall'emolumento.

Se è vero che in alcune, risalenti pronunce di questa Corte è stato ritenuto che le erogazioni del datore di lavoro derivanti da titolo transattivo, finalizzato non ad eliminare la "res dubia" oggetto della lite ma ad evitare il rischio della lite stessa, che non contenga un riconoscimento neppure parziale del diritto del lavoratore, sono da considerarsi non "in dipendenza" ma in nesso di mera occasionalità con il rapporto di lavoro e, pertanto, non assoggettabili a contribuzione assicurativa ai sensi dell'art. 12 legge 30 aprile 1969 n. 153 (Cass. n. 49/1997, n. 6923/96), la giurisprudenza più recente - e qui condivisa - ha affermato che, al fine di valutare se siano assoggettabili a contribuzione obbligatoria le erogazioni economiche corrisposte dal datore di lavoro in favore del lavoratore in adempimento di una transazione, spiega limitato rilievo la circostanza che tali somme siano pervenute al lavoratore in adempimento di un accordo transattivo, dovendosi valutare più approfonditamente non solo se manchi uno stretto nesso di corrispettività, ma se risulti un titolo autonomo, diverso e distinto dal rapporto di lavoro, che ne giustifichi la corresponsione, in quanto occorre tener conto sia del principio secondo il quale tutto ciò che il lavoratore riceve,in natura o in denaro, dal datore di lavoro in dipendenza e a causa del rapporto di lavoro rientra nell'ampio concetto di retribuzione imponibile ai fini contributivi (ex art. 12 della legge n. 153 del 1969) sia della assoluta indisponibilità, da parte dell'autonomia privata, dei profili contributivi che l'ordinamento collega al rapporto di lavoro (Cass. n. 11289 del 2003).

Ne consegue che, ai fini di cui all'art. 12 della legge n. 153 del 1969, l'indagine del giudice di merito sulla natura retributiva o meno delle somme erogate al lavoratore del datore di lavoro non trova alcun limite nel titolo formale di tali erogazioni; inoltre, per escludere la computabilità di un istituto non è sufficiente la mancanza di uno stretto nesso di corrispettività, ma occorre che risulti un titolo autonomo, diverso e distinto dal rapporto di lavoro, che ne giustifichi la corresponsione (cfr. Cass. n. 6663/2002). Difatti, sul fatto costitutivo dell'obbligazione contributiva, che ha natura di obbligazione pubblica nascente ex lege, non può incidere in alcun modo una volontà negoziale che regoli in maniera diversa l'obbligazione retributiva, ovvero risolva con un contratto di transazione la controversia insorta in ordine al rapporto di lavoro, precludendo alle parti del rapporto stesso il relativo accertamento giudiziale (vedi Cass. n. 3122/2003). Il rapporto assicurativo e l'obbligo contributivo ad esso connesso sorgono con l'instaurarsi del rapporto di lavoro, ma sono del tutto autonomi e distinti, nel senso che l'obbligo contributivo del datore di lavoro verso l'istituto previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d'opera siano stati in tutto o in parte soddisfatti, ovvero che il lavoratore abbia rinunciato ai suoi diritti (cfr. tra le numerose decisioni, Cass. 15 maggio 1993, n. 5547; 13 aprile 1999, n. 3630). Così come il giudicato negativo, per esempio, circa la natura subordinata di un rapporto, non può spiegare influenza per i soggetti, rimasti estranei al giudizio, che siano titolari di rapporti del tutto autonomi rispetto a quello su cui è intervenuto il giudicato (cfr. Cass. n. 2795/1999; n. 4821/1999), così la transazione tra datore di lavoro e lavoratore non può esplicare effetti riflessi sulla posizione dell'Inps, che fa valere in giudizio il credito contributivo derivante dalla legge e non dalla transazione.

Può dunque essere ribadito il principio che, in tema di obbligo contributivo previdenziale, la transazione intervenuta tra lavoratore e datore di lavoro è estranea al rapporto tra quest'ultimo e l'INPS, avente ad oggetto il credito contributivo derivante dalla legge in relazione all'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato (Cass. n. 17670/2007).

Nel caso di specie, la Corte territoriale non ha fatto corretta applicazione di tali principi ed ha seguito un percorso logico-giuridico incoerente, in quanto, pur ravvisando un nesso, almeno parziale, tra l'attribuzione patrimoniale e le rivendicazioni per inquadramento superiore, TFR o indennità di preavviso, ha poi disatteso tale relazione ponendo a carico dell'INPS l'onere di dimostrare in quale misura il titolo dell'erogazione trovasse tale giustificazione, concludendo che, in difetto di tale prova, l'intera somma doveva essere considerata estranea al rapporto di lavoro. Oltre al vizio logico intrinseco a tale opzione interpretativa, che svaluta lo stesso dato letterale assunto a fondamento del ragionamento, la soluzione si pone in contrasto con i principi sopra riportati, poiché non occorre un nesso di corrispettività per ritenere la "dipendenza" della erogazione dal rapporto di lavoro. Inoltre, quello che la Corte di appello qualifica come un titolo autonomo, ossia la volontà delle parti di evitare l'alea del giudizio, tale non è, esprimendo solo la funzione tipica della transazione, che è preordinata, mediante reciproche concessioni, ad evitare l'insorgere di una lite o di porre fine ad una controversia già in corso (art. 1965 c.c.).

Costituisce un elemento di fatto positivamente accertato dalla stessa Corte di appello che "dal dato testuale degli accordi transattivi" risulta che gli stessi avevano "preso le mosse da pretese dei lavoratori collegate al rapporto di lavoro" (pag. 3 sent. imp.). Vi è, dunque, un espresso riconoscimento della derivazione causale degli accordi dalle pretese e rivendicazioni dei lavoratori; a fronte di ciò, resta ininfluente, per le ragioni già esposte, la dichiarata volontà delle parti contraenti di escludere tale nesso, non potendo siffatta intenzione valere ad elidere gli effetti che la legge correla ad erogazioni comunque connesse al rapporto di lavoro.

Ulteriore vizio logico della sentenza risiede nell'avere ritenuto esistente un titolo autonomo e diverso nella dichiarata volontà delle parti di attribuire la somma anche quale incentivo all'esodo. Non è stato debitamente chiarito come potesse giustificarsi tale incentivo, ossia una elargizione finalizzata ad agevolare la fuoriuscita del dipendente dall'azienda, per un rapporto di lavoro già cessato al momento della pattuizione; è stata dunque ritenuta plausibile una giustificazione priva di fondamento nei dati fattuali.

In conclusione, la sentenza impugnata, pur evidenziando l'esistenza di dati testuali univocamente indicativi della "dipendenza" delle erogazioni dal rapporto lavorativo, ha poi negato che dallo stesso contratto di transazione potesse ritenersi acquisita la prova presuntiva dei fatti posti a fondamento della pretesa contributiva dell'Istituto, così incorrendo in un vizio logico oltre che giuridico. Gli stessi dati obiettivi evidenziati dalla Corte di appello, una volta espunto il vizio che ne inficia la qualificazione, costituiscono altrettanti elementi interpretativi che consentono di ritenere fondata la pretesa dell'INPS, poiché, esclusa l'esistenza di una causa autonoma e stante l'assoluta indisponibilità, da parte dell'autonomia privata, dei profili contributivi che l'ordinamento collega al rapporto di lavoro, gli emolumenti rientravano nell'ampio concetto di retribuzione imponibile ai fini contributivi di cui all'art. 12 della legge n. 153 del 1969.

La sentenza va dunque cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, deve procedersi alla decisione nel merito ai sensi dell'art. 384, secondo comma, c.p.c., con il rigetto dell'opposizione.

L'esistenza di alcune pronunce di legittimità di segno parzialmente contrario giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio."

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 20 novembre 2013 – 23 aprile 2014, n. 9180