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L’orario di lavoro nel contratto a tempo pieno è cosa che appartiene al potere dell'azienda

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17/11/2021

Questo potere aziendale deve essere esercitato nel rispetto del contratto e dei principi di buona fede

Una lavoratrice con mansioni di operaia di 3° livello, con orario spezzato dalle ore 8:00 alle 12:25 e dalle ore 14:00 alle 17:30, quale addetta, da ultimo, al montaggio di piastre Smeg, si rivolgeva al tribunale dolendosi di essere stata assegnata ad un reparto diverso, con mansioni di addetta allo stampaggio, da svolgere in piedi per tutta la durata del turno 14-22. Nel suo ricorso rimarcava che la novità della turnazione non era stata applicata a tutto il personale perché le altre operaie addette alle sue precedenti mansioni avevano continuato ad osservare l'orario spezzato. La lavoratrice chiedeva, pertanto, l’assegnazione alle mansioni in precedenza espletate con attribuzione dell'originario orario spezzato.

Il datore di lavoro ha chiesto il rigetto delle domande proposte; il tribunale ha respinto le domande della lavoratrice con sentenza che, però, veniva riformata dalla Corte di Appello di Torino, che perveniva all'accoglimento della domanda perché al momento della variazione dell'orario di lavoro, non sussistevano ancora le esigenze organizzative allegate dalla società, poiché la dismissione delle lavorazioni a giornata, alle quali era addetta la ricorrente, non era ancora in atto né di imminente realizzazione.

La datrice di lavoro ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo il suo diritto a mutare l’orario di lavoro nella collocazione temporale giornaliera.

La Corte di Cassazione, preliminarmente, ha ritenuto di dover chiarire che l'espressione orario di lavoro ha un significato pluridirezionale in quanto sta ad indicare sia la quantità della prestazione lavorativa dovuta, sia la distribuzione di tale prestazione in un determinato arco temporale. L’orario di lavoro è elemento essenziale per quantificare la misura della retribuzione; sotto altro versante l’orario di lavoro adempie alla primaria funzione di delimitare l'entità massima della prestazione che può essere richiesta al lavoratore. La fissazione dei limiti temporali imposti all’orario di lavoro, inoltre, è uno strumento necessario per tutelare la salute e l'integrità psicofisica dei lavoratori fin dagli albori della legislazione del lavoro ad oggi.

Per la Cassazione il potere direttivo della parte datoriale di mutare l’orario di lavoro può essere esercitato nel rispetto dei limiti legali di durata della prestazione lavorativa; il profilo quantitativo dell'orario di lavoro inerisce all’oggetto del contratto e non può essere modificato unilateralmente dal datore di lavoro, al quale deve, invece, essere riconosciuto il potere di distribuire diversamente nella giornata l’orario di lavoro da osservare; nel rispetto, però, dei limiti legali e contrattuali, sia di natura individuale che collettiva.

Il contratto di lavoro intercorso fra le parti in causa era un contratto a tempo pieno; il contratto a tempo pieno non è come il contratto a tempo parziale, per il quale vige il divieto dello ius variandi; nel contratto a tempo parziale la programmabilità del tempo libero assume carattere essenziale che giustifica la immodificabilità dell'orario da parte datoriale, per garantire la esplicazione di ulteriore attività lavorativa o un diverso impiego del tempo che la scelta del particolare rapporto evidenzia come determinante per l'equilibrio contrattuale. Ma per la Corte di Cassazione “questo principio del lavoro a tempo parziale non è applicabile al contratto di lavoro a tempo pieno, nel quale un'eguale tutela del tempo libero del lavoratore si tradurrebbe nella negazione del diritto dell'imprenditore di organizzare l'attività lavorativa; in tal caso il diritto può subire limiti solo in dipendenza di accordi che lo vincolino o lo condizionino a particolari procedure”.

Nel caso esaminato, il mutamento della distribuzione dell'orario di lavoro della lavoratrice, disposto unilateralmente dalla datrice di lavoro, “è conseguito allo spostamento del personale in un diverso reparto aziendale motivato dalla esigenza, effettiva, comprovata e non pretestuosa, di delocalizzazione della lavorazione della macchina Bloccaporta alla quale era addetta la lavoratrice, che sarebbe stata realizzata dopo circa sei mesi dalla disposta adibizione della lavoratrice ad un diverso reparto; si tratta dell'esplicazione di un momento individuativo del potere autorganizzativo del datore di lavoro, di per sé sottratto ai limiti relativi ai trasferimenti, e quindi non sindacabile in mancanza di specifici elementi che evidenzino una discriminazione o una mera vessazione del dipendente”.

La Corte ribadisce che il suo insegnamento in materia di controllo giudiziale è diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa ma non può questo controllo giudiziale “essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore”. Il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono esclusivamente al datore di lavoro o al committente.

Fissati questi principi generali, la Corte nel caso esaminato ha concluso che non vi è stata violazione da parte dell’impresa dell’obbligo di buona fede e correttezza perché questo obbligo “costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale - la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica, proprio per il suo rapporto sinergico con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce forza normativa e ricchezza di contenuti -, applicabile, sia in ambito contrattuale, sia in quello extracontrattuale”.

“La buona fede si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del nemínem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell'altra parte “.

Per la Corte “il principio di buona fede, che si specifica nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell'interesse della controparte, si pone come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto”.

Il datore di lavoro viola i principi della buona fede “allorquando, pur avendo la disponibilità di alternative opzioni organizzative del proprio assetto aziendale, non le utilizzi abusando del proprio diritto e danneggiando l'altra parte”.

Concludendo la sua analisi la Corte di Cassazione ha ritenuto viziata la sentenza della Corte di Appello che ha accolto il ricorso della lavoratrice perché quella sentenza non ha “congruamente esplicato” in che cosa consista la violazione del principio di buona fede, considerato che l’azienda in modo incontrovertibile ha effettivamente scelto di delocalizzare la sua attività senza che fosse messa in evidenza alcuna situazione di discriminazione ai danni della lavoratrice o di lesione di diritti che la stessa avesse acquisito in esecuzione di specifici accordi contrattuali sia di natura individuale che collettiva.

La Corte di Cassazione ha così accolto il ricorso aziendale riconoscendo il diritto dell’azienda di modificare la collocazione temporale della prestazione lavorativa nella giornata.

Cassazione Civile sezione lavoro Num. 31349 Data pubblicazione: 03/11/2021

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