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Il danno professionale da demansionamento deve essere oggetto di specifica e rigorosa prova

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16/01/2021

La prova può essere data anche in via presuntiva

Un funzionario, dipendente della Banca Popolare Italiana, si è rivolto al Tribunale del lavoro deducendo di essere stato demansionato nell'assegnazione delle nuove mansioni. In conseguenza di questo demansionamento, il funzionario ha dedotto di aver ricevuto un danno anche alla professionalità ed ha chiesto la condanna della banca al risarcimento del danno sofferto.
Il Tribunale ha respinto la domanda risarcitoria del danno professionale per la mancanza di prova ma ha accolta la domanda del funzionario per quanto riguardava il danno biologico.

Il funzionario ha impugnato la sentenza avanti la Corte di Appello, che, contrariamente al giudice del primo grado, ritenendo che il comportamento tenuto dalla Banca non fosse scusabile e che il demansionamento fosse provato e ad essa riconducibile, ha riformato la sentenza ed ha riconosciuto e aggiunto il danno professionale che ha quantificato nella misura del 10% della retribuzione dovuta al funzionario, a decorrere dal mese dalla data di attribuzione delle mansioni dequalificanti e sino alla proposizione del ricorso di primo grado.

Contro la sentenza ha proposto ricorso in Cassazione sia il funzionario che la banca datrice di lavoro.

La Corte di Cassazione ha respinto entrambi i ricorsi affermando che "Va premesso in via generale che costituisce orientamento costante di questa Corte quello secondo cui in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.
Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale (cfr. Cass. 05/12/2017 n. 29407 ). Si tratta di prova che può essere offerta con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento ed assume in tal senso rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno (Cass. 19/12/2008 n. 29832). In definitiva escluso che il pregiudizio sia in re ipsa collegato all'esistenza della dequalificazione, il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (cfr. Cass. 23/01/2011 n.1248 e comunque già Cass. Sez. U., Sentenza n. 6572 del 24/03/2006).

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 15 settembre – 16 dicembre 2020, n. 28810

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