06/09/2020
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La prima mostra in Italia dedicata a Georges de La Tour: 15 opere esposte su 40 di sicura attribuzione,a confronto con maestri del suo tempo, quali Gerrit van Honthorst, Paulus Bor, Trophime Bigot, Frans Hals.
Immaginiamo che una stanza buia sia rischiarata dalla fioca luce di una candela e che dal buio si riescano a decifrare, poco per volta, i particolari di un volto, di una mano, di un oggetto di uso quotidiano. La nostra vista si sofferma su ciò che può percepire, la nostra mente forse ci sospinge ad andare più in là, oltre il visibile, nel cuore delle tenebre. È ciò che ci sfida a fare Georges de La Tour, colui che fu soprannominato “pittore della luce”, artista francese del Seicento, riscoperto dalla critica dopo un lungo silenzio solo agli inizi del 1900.
Molti interrogativi circondano ancora la sua vita e le sue opere. Nasce in Lorena nel 1593 da un’umile famiglia di fornai, acquisisce il titolo nobiliare grazie al matrimonio con Diane Le Nerf, erede di una ricca e nobile famiglia lorenese, che lo introduce nell’alta società del tempo. Sempre più stimato per i suoi quadri dai contemporanei, nel 1639 diventa “pittore del re” di Francia Luigi XIII.
Di lui conosciamo, dagli atti giudiziari dell’epoca, il carattere: arrogante, violento, spadroneggia come un signorotto di provincia con la sua torma di cani. Vive a Luneville e, da quanto ci raccontano le cronache, i paesani non lo sopportano: è ricco, possiede terre e beni ma, per esenzione ducale, non paga le tasse, e caccia a bastonate chi osa toccare ciò che possiede.
Se dovessimo basarci su queste note biografiche, ci aspetteremmo delle opere violente e vitalistiche, invece, soprattutto quelle più mature, rivelano una tenerezza straordinaria nel ritrarre neonati, fanciulli, madri, sante in meditazione, con un atteggiamento quasi metafisico che trasfigura gli esseri umani in simboli. Come notava A.Malraux, La Tour è il pittore del silenzio, dell’incantesimo, della notte che si stende sul mondo, egli interpreta “la parte serena delle tenebre”. Se di Caravaggio assume alcuni temi e personaggi (il baro, la buona ventura), ma come se fossero un’eco lontana, l’immobilità delle sue opere fa venire alla mente piuttosto Paolo Uccello o Giotto. Il suo è un teatro di personaggi simili a statue, inseriti in uno spazio piatto, indefinito.
Le prime opere, frutto di una sperimentazione giovanile, sono ambientate alla luce diurna. Nella “Rissa tra musici mendicanti” l’artista ci mette di fronte, con crudo realismo, ad un violento alterco tra musici: mentre i due litiganti si fronteggiano, una vecchia, con il suo urlo muto, ci scarica addosso tutta la sua infelicità e ci costringe a guardarla.
Si tratta di una scena di genere, diffusa sia in Italia (con Caravaggio) che nella pittura fiamminga (Brueghel il vecchio e Terbrugghen), ma de la Tour la interpreta nella sua particolare maniera, mostrando distacco e una certa ironia. Distacco che si ripresenta anche nel monumentale “Suonatore di ghironda con cane”, anche questo soggetto tipico dell’arte francese e fiamminga. Ma anche qui l’artista manifesta la sua originalità: il vecchio è ripreso a figura intera, con una prospettiva dal basso verso l’alto. Non proviamo particolare partecipazione per questo anziano suonatore, che ci appare freddo e scostante, mentre, forse, l’unica nota di tenerezza è data dal cane accucciato ai suoi piedi, che ci guarda con aria implorante. Da notare, in questa come in altre opere, le mani dei personaggi: vecchie e rugose, o giovanili e quasi attraversate dalla luce, ad ogni modo sono mani che parlano. Non a caso l’artista era figlio e parente di fornai, che con le mani si procuravano da vivere.
Nelle opere della maturità, la sua pittura cambia: la luce diventa sempre più fioca, le scene, rischiarate da una debole fiamma di candela, diventano dei “notturni”. Mentre l’illuminazione nei quadri di Caravaggio è data da uno spiraglio, uno squarcio luminoso che ci fa intravvedere i personaggi staccandoli dal fondo oscuro, il lume dell’artista francese situa i protagonisti dell’opera in un’atmosfera senza tempo. “La fiamma di una candela, dice G.Bachelard, ci costringe ad immaginare, è essa stessa immagine di solitudine, di calma, di pace”. E il suo slancio verticale invita l’anima ad elevarsi verso Dio.
Uno dei capolavori in mostra è la “Maddalena penitente”, di cui dipinse almeno quattro versioni. In questa, proveniente da Washington, la santa, di cui si scorge il profilo e una parte del busto, medita sfiorando un teschio (la “vanitas” delle cose), riflesso in uno specchio. La donna, abbandonata la sua precedente vita dissoluta di peccatrice, è qui raffigurata come una penitente, senza gioielli o altri ornamenti mondani. I beni materiali, il frastuono della vita, sono ormai scomparsi: Maddalena è sola di fronte a se stessa.
Un’altra sorprendente figura di donna si ritrova in “Giobbe deriso dalla moglie”. Il quadro si riferisce all’episodio biblico in cui Giobbe viene disprezzato e deriso dalla moglie per aver sopportato con pazienza infinita le prove a cui Dio lo aveva sottoposto. Il contrasto tra i due non potrebbe essere più evidente, sia nella postura che nella resa cromatica: come una gigantessa, la donna incombe su Giobbe, raffigurato nella sua nudità come un vecchio magro e piagato. La rappresentazione della figura femminile è quasi architettonica, un arco che si racchiude sul vecchio. Il colore rosso del suo vestito contrasta con la tavolozza cromatica dalle tinte marroni con cui viene dipinto Giobbe.
Ed infine, a segnare l’estrema rarefazione della pittura dell’artista, osserviamo “San Giovanni nel deserto”, opera dove prevale il monocromo, sparisce ogni idea di spazio e di movimento: resta nella memoria l’immagine di un eremita chino su un agnello a cui porge un filo d’erba.
L’impressione che si ricava dalla mostra, molto interessante, anche se priva purtroppo di capolavori quali “San Giuseppe falegname” o “Il neonato”, è quella di un artista modernissimo, che è stato paragonato a Cezanne o Picasso, il quale, però, a differenza di molta arte contemporanea, ci parla di valori universali, di morale e di spiritualità.
Maggio 2020 Liviana Martin
P.s L'articolo in lingua inglese è pubblicato sulla rivista New Art Examiner del numero di maggio-giugno 2020.
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Rissa tra musici mendicanti |
Il patto di prova, contenuti e forma
In occasione della stipulazione di un contratto di lavoro subordinato, le parti possono ben convenire che l’assunzione avvenga con il patto di prova. Inserire in un contratto di lavoro questo patto significa che il datore di lavoro e il lavoratore prima della scadenza del termine finale della prova, possono decidere di sciogliersi liberamente dal contratto. Lo scioglimento può avvenire dall’oggi al domani, senza alcuna conseguenza negativa per il soggetto che assume l’iniziativa di farlo. Chi si scioglie dal rapporto di lavoro non deve dare alcun preavviso e non deve pagare alcuna indennità sostitutiva. Il datore di lavoro non deve dare la prova della sussistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa per poter intimare il licenziamento.
Il patto di prova, però, per essere valido e produrre gli effetti che abbiamo indicato, richiede dei requisiti di forma e di sostanza che possiamo così sintetizzare. Innanzitutto, il patto di prova deve essere concluso in forma scritta. Questa forma è un elemento essenziale. Se le parti dovessero stipulare il patto in forma verbale quel patto sarebbe semplicemente nullo. Non vale niente, come se non fosse mai stato concluso e voluto dalle parti. La nullità del patto di prova significa che il rapporto di lavoro è diventato definitivo e per essere risolto per iniziativa dell’azienda occorrono i rigorosi requisiti previsti dalla legge sulla giustificazione del licenziamento.
Un ulteriore requisito essenziale per la validità del patto di prova è costituito dalla indicazione delle mansioni che dovranno essere oggetto della prova. Le mansioni devono essere ben individuate e specificate nella lettera di assunzione. Le mansioni possono essere individuate anche con il semplice richiamo al contratto collettivo e all’inquadramento. Ma il contratto collettivo così richiamato deve fornire una conoscenza certa delle specifiche mansioni che dovranno essere oggetto della prova e che il lavoratore è chiamato a svolgere. Se il contratto collettivo in quel livello dovesse prevedere diversi profili professionali, la validità del patto di prova è seriamente compromessa.
Nei mesi o nei giorni della prestazione lavorativa, il lavoratore deve essere effettivamente adibito alle mansioni indicate nella lettera di assunzione. Lealtà esige che le mansioni svolte per provarsi reciprocamente debbano essere quelle volute e indicate nell’atto sottoscritto dalle parti.
La durata della prova varia da contratto collettivo a contratto collettivo e con riferimento al livello di inquadramento attribuito al lavoratore. Più alto è il livello più lungo può essere il patto di prova. La prova di un quadro ha necessità di un periodo di reciproca osservazione più lungo rispetto ad un operaio chiamato a svolgere mansioni semplici e ripetitive. La durata massima non può superare i sei mesi. La durata della prova può essere inferiore rispetto a quella indicata dal contratto collettivo ma non può superare la durata massima prevista dal contratto collettivo.
Il patto di prova può essere inserito anche in un contratto a tempo determinato oppure in un contratto a part time o anche in un contratto a part time e a tempo determinato. La durata della prova in un contratto a tempo determinato può essere più contenuto temporalmente rispetto a un contratto a tempo indeterminato. Per conoscere l’effettiva disciplina bisogna sempre far riferimento al contratto collettivo che si applica al rapporto di lavoro e attenersi scrupolosamente alle sue indicazioni.
Concluso il contratto le parti hanno l’obbligo di esperire la prova per un congruo termine di reciproca osservazione. Lo esige la buona fede nell’esecuzione del contratto.
Un patto di prova ben fatto non fa sorgere problemi nel caso in cui l’azienda prima della scadenza del termine decida di risolvere il rapporto di lavoro. Nel caso in cui il patto dovesse essere nullo e l’impresa dovesse occupare più di 15 addetti, al lavoratore illegittimamente licenziato spetta un risarcimento del danno che va da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità. Se l’impresa è di dimensioni più contenute il risarcimento va da due a sei mensilità della retribuzione. In tutti i casi la retribuzione mensile si calcola facendo riferimento alla retribuzione utile per il calcolo del tfr. Nella realtà sono frequenti i casi di nullità del patto di prova per assenza dei requisiti che abbiamo indicato. I principi sono chiari ma la loro esistenza non sempre è ben conosciuta da chi nell’azienda gestisce le assunzioni e conclude i contratti di lavoro.