30/12/2018
Il 2018 ormai è finito.
Quest’anno per il diritto del lavoro è stato un anno al cardiopalma, ricco di novità e di passioni. Vi sono state sentenze della Corte Costituzionale e procedimenti legislativi che hanno modificato profondamente il quadro normativo e le condizioni dei lavoratori.
Nella primavera abbiamo avuto una sentenza della Corte Costituzionale che ha parzialmente corretto le previsioni della norma sulla liquidazione delle spese processuali a favore delle aziende e contro i lavoratori. La Corte Costituzionale, pur ritenendo la norma legittima, ha ristretto le sue previsioni, riconoscendo che un lavoratore non può sempre e comunque essere condannato al pagamento delle spese processuali se perde la causa a favore del suo datore di lavoro.
Quella pronuncia della Corte Costituzionale, però, non sembra avere alcuna incidenza sui comportamenti dei giudici (Tribunali, Corti di appello e Corte di Cassazione) che hanno continuato sostanzialmente a comportarsi come prima della pronuncia della sentenza.
Destino ben diverso ha avuto, invece, la pronuncia della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità delle tutele crescenti, riconoscendo che quel sistema viola i principi della nostra Costituzione che, tra i suoi valori fondanti, ha quello della tutela del lavoro. Il lavoratore, assunto dopo il 6 marzo 2015, se licenziato illegittimamente, non può aver diritto ad una indennità rapportata meccanicamente all’anzianità di servizio, da un minimo di 4 o 6 mensilità ad un massimo di 24 o 36 mensilità di retribuzione, senza che il giudice possa apportare dei correttivi. Dopo questa pronuncia, se il licenziamento è illegittimo, sarà il giudice a dire, con riferimento al caso concreto a lui sottoposto in esame, quante mensilità spetteranno al lavoratore, da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità di retribuzione. I principi affermati dalla Corte Costituzionale tutelano in modo forte quei lavoratori che, invece, con le tutele crescenti erano stati castigati. Il principio introdotto dalla Corte Costituzionale scoraggia in modo forte i licenziamenti facili, anche se ha confermato l’inesistenza del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro. La sentenza ha inciso con immediatezza sui rapporti di lavoro.
La terza novità, e questa volta non per opera dei giudici ma del Parlamento, è stata la disciplina più restrittiva del contratto a tempo determinato. Da una liberalizzazione forte del contratto a termine si è passati a una disciplina più temperata. Per il primo anno, il datore di lavoro può assumere anche senza causale, ma per il successivo anno occorre che sussistano specifiche ragioni organizzative, produttive e sostitutive. Senza queste ragioni il contratto a termine non può essere validamente costituito.
Per disposizione del Parlamento, poi, il risarcimento dei danni dovuto ai lavoratori licenziati in modo illegittimo, assunti dopo il 6 marzo 2015, è stato elevato nel suo minimo da 4 a 6 mensilità e nel suo massimo da 24 a 36 mensilità. Si tratta sempre di una tutela solo economica, senza che il lavoratore licenziato in modo illegittimo possa rientrare in azienda, non essendovi più la reintegrazione per le aziende che occupano più di 15 addetti con contratti a tempo indeterminato. La norma introdotta dal Parlamento, unita alla pronuncia della Corte Costituzionale, che ha demolito le tutele crescenti, ha creato un nuovo sistema di tutela solo economica, ma molto forte a favore del lavoratore.
Il bilancio finale del 2018 per i lavoratori sicuramente si chiude in attivo. Le aziende temono che queste decisioni e riforme possono compromettere l’occupazione; particolarmente le nuove norme sul contratto a termine sono state messe sotto accusa. Vedremo che cosa diranno i fatti del prossimo 2019.
Nella foto: dalla mostra Idoli, il potere dell'immagine. Venezia Palazzo Loredan