16/12/2018
La Sixty italia Retail srl intima a una sua lavoratrice il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La lavoratrice impugna il licenziamento sostenendone la illegittimità perché le era stato intimato con la omissione della procedura del tentativo obbligatorio di conciliazione avanti al direzione territoriale del lavoro; a questo motivo aggiunge che nel merito che non vi erano le ragioni giustificatrici della sua estromissione dal posto di lavoro e che ben poteva essere utilizzata in altra posizione lavorativa con mansioni equivalenti. Il tribunale lè da torto e conferma il licenziamento sia nella fse sommaria che nella fase dell’opposizione. Contro la sentenza la lavoratrice propone reclamo alla corte di appello. In corte d’appello, la lavoratrice, agli originari motivi di contestazione del licenziamento enunciati avanti il tribunale aggiunge anche la natura discriminatoria del suo licenziamento chiedendo, per la prima volta la reintegrazione nel posto di lavoro. La corte di appello ha respinto il reclamo e la nuova domanda.
La lavoratrice rivolgendosi alla Cassazione lamenta che la corte di appello, sbagliando, non aveva considerato la natura discriminatoria del suo licenziamento.
La Cassazione, però, non ha potuto che respingere il ricorso della lavoratrice perché ha definitivamente accertato e verificato che la domanda di nullità del licenziamento discriminatorio per violazione del divieto di licenziamento della lavoratrice madre in congedo parentale era stata proposta tardivamente, solo in corte di appello con il reclamo.
Per la Cassazione è vero che il giudice, ha la facoltà di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti nella lite ed all’azione esercitata in causa, ponendo a fondamento della sua decisione le norme disciplinatrici della fattispecie diverse da quelle erroneamente richiamate dalle parti con gli stessi elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa. I fatti, però, non possono essere modificati dal giudice, così come non possono essere modificate le domande; solo il diritto appartiene sempre al giudice che ben può discostarsi dalle prospettazioni delle parti e applicarlo secondo i suoi convincimenti. Per decidere sul licenziamento discriminatorio bisognava che la parte interessata deducesse i fatti posti a fondamento di questa discriminazione; ma questi fatti nel caso sottoposto a esame della Cassazione sono mancati o meglio sono stati eccepiti dalla parte interessata solo in sede di reclamo avanti la corte di appello incorrendo nel vizio della tardività e della inammissibilità.
La Cassazione ha respinto il ricorso della lavoratrice e senza considerare le sue condizioni personali (lavoratrice, lavoratrice madre e disoccupata) l’ha condannata anche a pagare 5 mila euro al suo datore di lavoro a titolo di spese processuali.
Cassazione sez. lavoro n. 31987 dell’11 dicembre 2018.