08/02/2018
L’azienda ha contestato ad un lavoratore di aver effettuato due telefonate inappropriate alla presenza di una collega di stanza. Il contenuto della contestazione di addebito era così formulato dall’azienda: “Nel corso della prima telefonata, Lei, incurante della presenza della sua collega nella stanza, con tono della voce tale da rendere chiaramente comprensibile il tenore della sua conversazione ai presenti, ha detto testualmente: “ Questo lavoro mi fa schifo, aspetto di andare via da questo reparto “ e poi ha proseguito “ esco alle 15,00 , per le 16,00 sono a casa e facciamo sesso estremo“. Successivamente , dopo essersi assentato dalla stanza per qualche minuto, Lei, sempre incurante della presenza della sua collega, ha effettuato una seconda telefonata dal telefono fisso aziendale, nel corso della quale ha proferito le seguenti espressioni “ sono in macchina, se vuoi approfittarne andiamo al motel. Io preferisco quello con la doccia quadrangolare “ specificando “ non mi importa se non hai l’intimo adatto“; quindi ha chiesto alla destinataria della telefonata se avesse la webcam del PC aziendale attiva e l’ha invitata a “ spostarsi il maglione per vedere cosa c ‘era sotto “, precisando, infine, all’interlocutore“ non sono in ufficio da solo“.
Con riferimento ai fatti così enucleati l'azienda ha contestato al lavoratore:
"di avere pronunciato frasi dal tenore oggettivamente contrario al normale senso del pudore, sul luogo del lavoro e alla presenza della sua collega di stanza; di avere conseguentemente tenuto un comportamento irriguardoso nei confronti della sua collega; di avere utilizzato in modo improprio gli strumenti aziendali a lei assegnati per lo svolgimento dell’attività lavorativa. I comportamenti da lei tenuti, anche singolarmente considerati, costituiscono grave inadempimento delle normali regole del vivere civile, nonché di quanto disposto dal vigente CCNL, dal vigente codice etico e dai doveri di diligenza, osservanza, buona fede, correttezza e collaborazione che le derivano dal rapporto di lavoro…”.
Il lavoratore ha impugnato il licenziamento avanti al tribunale di Milano che lo ha dichiarato illegittimo, disponendo la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento dei danni, con la condanna del datore di lavoro al pagamento delle spese processuali. Contro la sentenza ha proposto appello l’azienda. La corte di appello di Milano, riformando la sentenza, ha confermato la illegittimità del licenziamento ma non ha riconosciuto il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro, condannando così l’azienda solo al pagamento dell’indennità risarcitoria pari a 18 mensilità di retribuzione ma senza più il posto di lavoro. Le spese processuali dell’appello sostenute dal lavoratore sono state poste a carico del lavoratore mentre quelle di primo grado sono state compensate.
Il presidente relatore della Corte di Appello ha aspramente criticato il comportamento del lavoratore: " Tale condotta, tenuto conto anche della qualifica di quadro rivestita ..., appare oggettivamente grave, contravvenendo macroscopicamente ad elementari regole di correttezza, di educazione e di rispetto che deve improntare la condotta del dipendente sul luogo di lavoro e nel rapporto con gli altri colleghi; tali regole di rispetto, di correttezza e di educazione appaiono, senza alcun freno inibitorio, disattese nella fattispecie, tenuto conto della natura delle espressioni utilizzate e delle riferite circostanze del caso concreto gratuitamente subite (dalla lavoratrice presente in stanza ndr): la donna ha riferito di aver potuto solo in quel momento, “ incassare il colpo “. Ritiene tuttavia la Corte che nella fattispecie, nonostante la oggettiva gravità dei fatti, la misura espulsiva per giusta causa adottata dalla società debba tuttavia ravvisarsi non proporzionata; in tal senso il Collegio ritiene debba darsi rilievo in particolare all’assenza di precedenti disciplinari nel corso della precedente durata del rapporto di lavoro. Ritiene inoltre il Collegio che la vicenda, per la sua peculiarità, reiterazione ed unitarietà, per il tenore erotico – sessuale delle espressioni utilizzate, per il contestuale utilizzo dei mezzi aziendali, non si presti ad essere segmentata ed incasellata in alcuna delle previsioni per le quali l’art. 39 CCNL di settore prevede mere sanzioni conservative. Osserva la Corte che la violazione di elementari regole del vivere civile sul luogo di lavoro ( così come giustamente contestato dalla società ) e di elementari principi di rispetto di una collega di lavoro, nei suoi valori di persona ed anche di donna, non si presti ad essere inquadrata nelle previsioni di cui alle lettere a ed n del CCNL del settore; in altri termini la unitaria e peculiare vicenda non può essere ricondotta al mero uso improprio di strumenti aziendali ovvero ad una mera mancanza alla morale o alla persona. Ne consegue che il ravvisato difetto di proporzionalità rende applicabile nella fattispecie la tutela prevista per “ le altre ipotesi “ di cui all’art. 18, comma 5 legge 300/1970. ( cfr. fra le altre Cass 23369/2014; 10019/2016; 13178/2017)." Da tutto questo solo il risarcimento dei danni ma senza la reintegrazione nel posto di lavoro.
Corte di appello di Milano. Giudice relatore Picciau. Sentenza n. 41/2018 pubbl. il 12/01/2018
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