25/01/2018
Un lavoratore ha agito avanti il tribunale assumendo di essere stato vittima di una complessiva condotta di mobbing. Il tribunale ha ritenuto sussistente il Mobbing aziendale perché è stato dimostrato nella causa che il lavoratore aveva subito le vessazioni aziendali per essersi rivolto all'organizzazione sindacale per la tutela dei suoi interessi. In conseguenza della iscrizione al sindacato, l'azienda lo aveva spostato di reparto, aveva adottato una pluralità di sanzioni disciplinari ingiustificate, lo aveva emarginato con isolamento nell'ambito del lavoro. Il tutto al fine di indurlo a rassegnare le dimissioni, così come in effetti è avvenuto. Il tribunale ha riconosciuto al lavoratore a titolo di risarcimento dei danni la somma di euro 23.328 per la menomazione permanente subita alla sua salute, la somma di euro 5165 a causa del periodo di inabilità temporanea, la somma di euro 4200 per la perdita delle provvigioni nel periodo in cui non ha potuto prestare la sua attività lavorativa a causa delle lesioni subite e la somma di euro 801 a titolo di rimborso per le spese di assistenza medico-legale sostenute. La corte di appello ha confermato la sentenza di condanna del tribunale. L'azienda ha proposto ricorso in cassazione. La cassazione ha respinto il ricorso affermando che i giudici di merito, nel decidere la controversia, avevano fatto rigorosa applicazione dei principi giurisprudenziali in materia così sintetizzati:
"La Corte territoriale si è attenuta, infatti, nell'esame della fattispecie, ai parametri normativi elaborati in tema di "mobbing" dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 17.2.2009 n. 3785 e da ultimo ribadita da Cass. 6.8.2014 n. 17698 ) secondo cui "ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi: b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi. In tema di onere della prova, poi, la Corte di merito si è adeguata, facendone corretta applicazione, al criterio in virtù del quale incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l'uno e l'altro, mentre se vi sia stata prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi". Cassazione sezione lavoro numero 30.606 del 20 dicembre 2017.