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la Cassazione a fine dicembre 2016 afferma che il licenziamento può avere anche l'obiettivo di aumentare i profitti aziendali

tag  News  licenziamento  profitto  azienda  motivi economici  legittimità  incremento  aumento 

31/12/2016

Nuova giurisprudenza della Suprema Corte

In questi giorni di fine dicembre 2016, sulla stampa nazionale, ha fatto notizia un verdetto della Corte di Cassazione che, in una sua pronuncia di fine anno, ha dichiarato legittimo licenziamento di un lavoratore anche se l'azienda non è in crisi ed ha adottato il provvedimento di licenziamento al fine di aumentare i suoi margini di profitto.

La pronuncia della Corte di cassazione è stata giudicata dai sindacati, così come riportato dai giornali nazionali, come "pessima e deleteria per il lavoratore".

In realtà simili pronunce da parte della Corte di Cassazione non costituiscono un'assoluta novità perché, tra i giudici della stessa Corte, vi sono stati collegi giudicanti, che negli anni passati, hanno condiviso questo indirizzo giurisprudenziale e hanno dichiarato legittimato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo untimato anche per aumentare i profitti e non solo per fronteggiare situazioni di crisi aziendali.

Vi offriamo di seguito un panorama  degli opposti indirizzi giurisprudenziali, che come potete direttamente costatare, risalgono nel tempo, togliendo ogni alone di novità all'ultima pronuncia della Corte di cassazione che ha surriscaldato gli animi nel fine anno 2016.

Il licenziamento non si può intimare per aumentare i profitti:

 "Questa Corte ha in più occasioni ha affermato (Sez. L, Sentenza n. 19616 del 26/09/2011; Sez. L, Sentenza n. 21282 del 02/10/2006;  Sez. L, Sentenza n. 7006 del 25/03/2011) che il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, della L. 15 luglio 1996, n.  604, ex art. 3, è determinato non da un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla  soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto che il  datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad iniziative collegate ad  effettive ragioni di carattere produttivo- organizzativo, e non ad un mero incremento di profitti, e che dimostri, inoltre, l'impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale." (Cassazione civile, sez. lav., 16/03/2015, (ud. 18/11/2014, dep.16/03/2015),  n. 5173).

Conformi nel tempo:

Cassazione civile, sez. lav., 26/09/2011,  n. 19616

Cassazione civile, sez. lav., 02/10/2006,  n. 21282

Cassazione civile, sez. lav., 07/07/2004,  n. 12514

cassazione civile se. lav. n. 3030/99

Cassazione civile, sez. lav.,. n. 11646/98

Cassazione civile, sez. lav.,. n. 12999/95

Cassazione civile, sez. lav., 12/06/1995,  n. 6621

Cassazione civile, sez. lav., 05/04/1990,  n. 2824

 Il licenziamento si può intimare anche per incrementare i profitti aziendali.

Corte di Cassazione - Gazzetta del lavoro"Le ragioni, inerenti l'attività produttiva, possono, dunque, derivare, oltre che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all'incremento dei profitti. Queste ragioni devono essere, nella loro oggettività tale da determinare il venir meno della posizione lavorativa e ciò si verifica quando la prestazione divenga inutilizzabile a causa della diversa organizzazione che viene attuata e non in forza di un atto arbitrario del datore di lavoro (Cass. 9 luglio 2001 n. 9310). Tale indirizzo interpretativo si fonda sul disposto dell'art. 3 L. 604/66, da cui si ricava che è oggettivamente  giustificato il licenziamento del dipendente che sia stato attuato allo scopo di sopprimere una posizione lavorativa ancorchè per ridurre i costi ancorchè le mansioni già assegnate al dipendente licenziato vengano affidate ovvero distribuite fra altri soggetti (siano essi lavoratori dipendenti o no della stessa impresa), dato che, in tal caso, il recesso è strettamente collegato "all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa", elementi questi, in relazione ai quali non può essere sindacata la scelta operata dal datore di lavoro, essendo la stessa espressione della libertà di iniziativa economica garantita dall'art. 41 Cost., della Costituzione (cfr. anche Cass. 14 dicembre 1998 n. 12554). Opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dal richiamato art. 41, per il quale l'organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non, anche ai fini di una più proficua configurazione dell'apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il "naturale" interesse ad ottimizzare l'efficienza e la competitività."

Cassazione civile, sez. lav., 10/05/2007,  n. 10672

Cassazione civile, sez. lav., 11/04/2003,  n. 5777.

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Con questi chiari di luna giurisprudenziali, alla fine, il destino dell'azienda o del lavoratore sulla controversia avente ad oggetto il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dipende solo alla buona stella, ovvero dal destino cinico e baro, che designerà il collegio della corte di cassazione, che sarà chiamato a giudicare il caso specifico. In questo modo l'incertezza sull'esito della singola causa è assicurata per tutti, aziende e lavoratori, senza discriminazione e senza privilegi. 

 


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