08/01/2014
La corte di cassazione a sezione unite ha pronunciato l’interessante sentenza che si riporta risolvendo la vexata quaestio sul danno da dequalificazione, sulla prova e sull’onere di parte.
Per la Corte “La questione è la seguente: se, in caso di demansionamento o di dequalificazione, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto di quello cd. esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, consegua in re ipsa al demansionamento, oppure sia subordinato all'assolvimento, da parte del lavoratore, all'onere di provare l'esistenza del pregiudizio.
Invero entrambi gli indirizzi convergono nel ritenere che la potenzialità nociva del comportamento datoriale può influire su una pluralità di aspetti (patrimoniale, alla salute e alla vita di relazione) e concordano sulla risarcibilità anche del danno non patrimoniale, ammettendo il ricorso alla liquidazione equitativa, ma divergono o presentano una inconciliabile diversità di accenti e di sfumature quanto al regime della prova.
Sono ascrivibili al primo indirizzo le pronunce di cui a Cass. n. 13299 del 16 dicembre 1992, n. 11727 del 18 ottobre 1999, n. 14443 del 6 novembre 2000, 13580 del 2 novembre 2001, n. 15868 del 12 novembre 2002, n. 8271 del 29 aprile 2004, n. 10157 del 26 maggio 2004, le quali, ancorchè con motivazioni diversamente articolate alla stregua delle pronunzie oggetto di esame, hanno ritenuto che "In materia di risarcimento del danno per attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto, l'ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonchè alle altre circostanze del caso concreto".
Sono ascrivibili al diverso indirizzo che richiede la prova del danno Cass. n. 7905 dell'11 agosto 1998, n. 2561 del 19 marzo 1999, n. 8904 del 4 giugno 2003, n. 16792 del 18 novembre 2003, n. 10361 del 28 maggio 2004, le quali enunciano il seguente principio "Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione e di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicchè non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'art. 2697 cod. civ.". Con dette pronunzie si sono generalmente confermate le sentenze di merito che avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno per essere stata la dequalificazione fatta genericamente derivare dalla privazione di compiti direttivi, per non essere stati precisati i pregiudizi di ordine patrimoniale ovvero non patrimoniale subiti, e per non essere stati forniti elementi comprovanti una lesione di natura patrimoniale, non riparata dall'adempimento dell'obbligazione retributiva, ovvero una lesione di natura non patrimoniale.
Le sezioni unite ritengono di aderire a quest'ultimo indirizzo.
1. La tesi maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza è quella che prospetta la responsabilità datoriale come di natura contrattuale. Ed infatti, stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale: nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art. 2103 c.c. (divieto di dequalificazione), mentre nel secondo deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. (tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) norma che inserisce, nell'ambito del rapporto di lavoro, i principi costituzionali. In entrambi i casi, giacchè l'illecito consiste nella violazione dell'obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall'art. 1218 cod. civ., con conseguente esonero dall'onere della prova sulla sua imputabilità, che va regolata in stretta connessione con l'art. 1223 c.c.. Vi è da aggiungere che l'ampia locuzione usata dall'art. 2087 cod. civ. (tutela della integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) assicura il diretto accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, e quindi non è necessario, per superare le limitazioni imposte dall'art. 2059 cod. civ. (sulla evoluzione di detta tematica vedi Corte Costituzionale n. 233/2003 e l'indirizzo inaugurato da Cass. n. 7283 del 12 maggio 2003), verificare se l'interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale, perchè la protezione è già chiaramente accordata da una disposizione del codice civile.
2. Dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'alto illegittimo.
L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma. Non può infatti non valere" anche in questo caso, la distinzione tra "inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c., per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano "conseguenza immediata e diretta" dell'inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 cod. civ., da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte Costituzionale n. 372 del 1994). D'altra parte - mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta - ove diminuzione non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile. In altri termini la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l'attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento. 3. E' noto poi che dall'inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all'integrità psico-fisica o danno biologico, danno all'immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cd. esistenziale, che possono anche coesistere l'una con l'altra.
Prima di scendere all'esame particolare, occorre sottolineare che proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno. Non è quindi sufficiente prospettare resistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cass. sez. un. 3 febbraio 1998 n. 1099).
4. Passando ora all'esame delle singole ipotesi, il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilitàdi guadagno. Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l'esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.
Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell'interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perchè - fermo l'inadempimento - l'interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell'impegno assunto di svolgere l'attività che gli viene richiesta dal datore.
5. Più semplice è il discorso sul danno biologico, giacchè questo, che non può prescindere dall'accertamento medico legale, si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accettabile, secondo la definizione legislativa di cui alla L. n. 57 del 2001, art. 5, comma 3, sulla responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003).
6. Quanto al danno non patrimoniale all'identità professionale sul luogo di lavoro, all'immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 Cost. (cd. danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l'orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto. Invero, stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed ulteriore (propria del ed danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso.
Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l'interessato sull'oggetto e sul modo di operare dell'asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso nell'atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all'immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica conseguenza della dequalificazione. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare - al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell'indennità psicofisica - necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita.
Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell'isolamento, della forzata inoperosità, dell'assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perchè questi elementi integrano l'inadempimento del datore, ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l'equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l'interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l'inadempimento, ma non c'è pregiudizio e quindi non c'è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalia Corte Costituzionale con la sentenza n. 378 del 1994 per cui "E' sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 cod. civ., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato".
6. Ciò considerato in tema di allegazioni e passando ad esaminare la questione della prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente. Mentre il danno biologico non può prescindere dall'accertamento medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo "i concreti" cambiamenti che l'illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti - se è vero che la stessa categoria del "danno esistenziale" si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accettabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso - all'onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l'ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall'ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002) per la formazione del suo convincimento, purchè, secondo le regole di cui all'art. 2727 cod. civ. venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravita, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostanze, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cass. n. 13819 del 18 settembre 2003), complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ. a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
D'altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perchè questa, per non trasmodare nell'arbitrio, necessita di parametri a cui ancorarsi.
7. Applicando detti criteri al caso di specie, la Corte Territoriale afferma essere indiscutibile che il dedotto demansionamento ha sicuramente prodotto una serie di risultati negativi ed indica a tal fine la lesione della personalità professionale e morale, il discredito derivante dal declassamelo nell'ambiente di lavoro ed il pregiudizio sul curriculum vitae e sulla carriera dell'istante.
In primo luogo detti rilievi prescindono integralmente dalle allegazioni del ricorrente, perchè non se ne riporta in alcun modo il tenore, anzi l'espressione usata: "Si pensi alla lesione della personalità professionale e morale ... al discredito nell'ambiente di lavoro" sembra alludere a conclusioni cui il Giudice è pervenuto autonomamente, in altri termini, non risultano posti a base della decisione fatti introdotti dalla parte nel processo, così contravvenendo all'obbligo di decidere iuxta alligata ed probata di cui all'art. 115 cod. proc. civ..
Inoltre ciò di cui si da conto è, non già - come si dovrebbe - il danno conseguenza della lesione, e cioè l'esistenza dei riflessi pregiudizievoli prodotti nella vita dell'istante attraverso una negativa alterazione dello stile di vita, ma l'esistenza della lesione medesima, essendosi fatto ricorso ad una formula standardizzata, tale da potersi utilizzare in tutti i casi di dedotta dequalificazione, con conseguente rischio di risolvere dette controversie con l'apposizione di un formulario "fisso" e quindi con elusione delle specificità delle singole fattispecie. Del tutto generico e immotivato è poi il riferimento al pregiudizio al curriculum ed alla carriera, non facendosi alcuna indicazione sulle concrete aspettative dell'interessato nel futuro svolgimento della vita professionale che sarebbero state frustrate dall'inadempimento datoriale, nè alla conoscenza della vicenda al di fuori dell'ambiente di lavoro, nè alla perdita di concrete, o quanto meno potenziali, occasioni di lavoro. In sostanza l'esistenza del danno si è fatta erroneamente coincidere con la esistenza della lesione.
Il quarto motivo del ricorso principale va quindi accolto e la sentenza impugnata va cassata sul punto, dovendosi affermare il seguente principio, cui si atterrà il giudice del rinvio: in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamele ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed ulteriore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dallo ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravita, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coeretitemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ. a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
(Cassazione civile , sez. un., 24 marzo 2006 , n. 6572).
Milano 30/11/2006.
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