24/04/2024
Alcuni lavoratori operai turnisti, alle dipendenze di una azienda del settore delle ceramiche, si sono rivolti al giudice del lavoro chiedendo il pagamento di differenze retributive per aver l'azienda calcolato in modo errato il valore della paga oraria utilizzato per detrarre dal compenso mensile dovuto le ore di lavoro non prestate e da non retribuire.
Il contratto collettivo per la quantificazione della retribuzione prevedeva il criterio della mensilizzazione stabilendo per la individualizzazione della retribuzione oraria l'applicazione del divisore 173.
Per il contratto collettivo dei dipendenti del settore ceramiche, la quantificazione della retribuzione avviene secondo il criterio della "mensilizzazione”, il quale implica che la retribuzione mensile risulta insensibile alle variazioni di orario che dovessero concretamente intervenire mese per mese. In base a tale criterio, ciascun lavoratore percepisce ogni mese, indipendentemente dalla durata della prestazione in giorni lavorativi, una retribuzione mensile fissa definita dalle tabelle contrattuali. Naturalmente la previsione di una retribuzione mensile in misura fissa pone la necessità di stabilire il valore della retribuzione mensile oraria ove necessario per l’applicazione di determinati istituti, per cui le parti collettive hanno a tal fine stabilito l’adozione di un parametro convenzionale che nel caso in esame e per lo specifico contratto collettivo è rappresentato dal divisore 173; la retribuzione oraria si calcola, quindi, dividendo la retribuzione mensilizzata fissa per 173. Ma per l'azienda il contratto collettivo prevede l’applicazione del divisore 173 in relazione ai soli lavoratori con orario contrattuale di quaranta ore settimanale, configurante il regime normale dell'orario di lavoro, mentre in relazione alle tipologie di lavoratori con orario diverso e inferiore (turnisti, lavoratori a doppio turno ecc.) vi è la necessità di riproporzionamento dei meccanismi di calcolo della retribuzione oraria in funzione del minor numero di ore di lavoro contrattualmente stabilito, il quale per i turnisti come gli odierni ricorrenti è pari a 144 ore mensili.
Per meglio comprendere la controversia, secondo quanto sostenuto dall'azienda, assumendo una retribuzione mensilizzata di euro 1500 ad un lavoratore adibito a turni con orario mensile di 144 ore, assente nel mese per 40 ore al fine di quantificare il valore orario della retribuzione delle ore di assenza, occorreva detrarre la somma di euro 416, mentre applicando il divisore 173 si sarebbe dovuta detrarre la minor somma di euro 346.
La Cassazione, ritenendolo privo di pregio, ha respinto il ricorso dell'azienda contro la sentenza dei giudici di merito che, invece, hanno riconosciuto il diritto dei lavoratori turnisti ad avere l'applicazione del divisore 173 e non 144. Il contratto collettivo prevede il criterio della mensilizzazione della retribuzione per tutte le categorie dei lavoratori indipendentemente dall'orario settimanale previsto dal contratto collettivo, che prevede la generale applicabilità del divisore 173 al fine della determinazione della retribuzione oraria per tutti i lavoratori, non distinguendo tra le varie categorie a seconda dell'orario di lavoro contrattualmente previsto.
Con questa previsione del contratto, evidentemente, le parti collettive hanno scelto di riservare "un trattamento differenziato di favore a lavoratori che come i turnisti, che hanno un orario contrattuale inferiore alle quaranta ore settimanali, la stessa deve plausibilmente ricondursi, secondo quanto evidenziato dalla sentenza impugnata, all’esigenza di compensare, attraverso una disciplina più favorevole, la maggiore gravosità e penosità del lavoro a turni notoriamente implicanti una maggiore incidenza sulla vita del soggetto ed una continua variabilità di orario, << a fronte dell’evidente interesse della parte datoriale a saturare l’utilizzo dei macchinari ed in particolare dei forni>>, venendo, inoltre, in rilievo anche la considerazione che le parti sociali, in relazione al minore orario, avevano concordato di aggiungere, per completare l’orario mensile di 173 ore ( corrispondente ad un orario settimanale articolato su quaranta ore), le r.o.l. ed altri diritti del lavoratore, previsti nella contrattazione, nazionale ed aziendale, in materia di orario di lavoro “ .
La previsione del contratto collettivo non è da considerarsi abnorme, come sostenuto dall'azienda, perché "Tale argomento trascura di considerare che le conseguenze di tale pretesa “abnormità” sono direttamente riconducibili alla comune volontà delle parti collettive, le quali hanno evidentemente operato una valutazione complessiva e globale delle caratteristiche della prestazione resa dai lavoratori con orario inferiore alle quaranta ore settimanali e su questa base proceduto alla determinazione del relativo trattamento economico- normativo; " Cassazione civile sezione lavoro sentenza Num. 28320 pubblicata il 10/10/2023.
Il patto di prova, contenuti e forma
In occasione della stipulazione di un contratto di lavoro subordinato, le parti possono ben convenire che l’assunzione avvenga con il patto di prova. Inserire in un contratto di lavoro questo patto significa che il datore di lavoro e il lavoratore prima della scadenza del termine finale della prova, possono decidere di sciogliersi liberamente dal contratto. Lo scioglimento può avvenire dall’oggi al domani, senza alcuna conseguenza negativa per il soggetto che assume l’iniziativa di farlo. Chi si scioglie dal rapporto di lavoro non deve dare alcun preavviso e non deve pagare alcuna indennità sostitutiva. Il datore di lavoro non deve dare la prova della sussistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa per poter intimare il licenziamento.
Il patto di prova, però, per essere valido e produrre gli effetti che abbiamo indicato, richiede dei requisiti di forma e di sostanza che possiamo così sintetizzare. Innanzitutto, il patto di prova deve essere concluso in forma scritta. Questa forma è un elemento essenziale. Se le parti dovessero stipulare il patto in forma verbale quel patto sarebbe semplicemente nullo. Non vale niente, come se non fosse mai stato concluso e voluto dalle parti. La nullità del patto di prova significa che il rapporto di lavoro è diventato definitivo e per essere risolto per iniziativa dell’azienda occorrono i rigorosi requisiti previsti dalla legge sulla giustificazione del licenziamento.
Un ulteriore requisito essenziale per la validità del patto di prova è costituito dalla indicazione delle mansioni che dovranno essere oggetto della prova. Le mansioni devono essere ben individuate e specificate nella lettera di assunzione. Le mansioni possono essere individuate anche con il semplice richiamo al contratto collettivo e all’inquadramento. Ma il contratto collettivo così richiamato deve fornire una conoscenza certa delle specifiche mansioni che dovranno essere oggetto della prova e che il lavoratore è chiamato a svolgere. Se il contratto collettivo in quel livello dovesse prevedere diversi profili professionali, la validità del patto di prova è seriamente compromessa.
Nei mesi o nei giorni della prestazione lavorativa, il lavoratore deve essere effettivamente adibito alle mansioni indicate nella lettera di assunzione. Lealtà esige che le mansioni svolte per provarsi reciprocamente debbano essere quelle volute e indicate nell’atto sottoscritto dalle parti.
La durata della prova varia da contratto collettivo a contratto collettivo e con riferimento al livello di inquadramento attribuito al lavoratore. Più alto è il livello più lungo può essere il patto di prova. La prova di un quadro ha necessità di un periodo di reciproca osservazione più lungo rispetto ad un operaio chiamato a svolgere mansioni semplici e ripetitive. La durata massima non può superare i sei mesi. La durata della prova può essere inferiore rispetto a quella indicata dal contratto collettivo ma non può superare la durata massima prevista dal contratto collettivo.
Il patto di prova può essere inserito anche in un contratto a tempo determinato oppure in un contratto a part time o anche in un contratto a part time e a tempo determinato. La durata della prova in un contratto a tempo determinato può essere più contenuto temporalmente rispetto a un contratto a tempo indeterminato. Per conoscere l’effettiva disciplina bisogna sempre far riferimento al contratto collettivo che si applica al rapporto di lavoro e attenersi scrupolosamente alle sue indicazioni.
Concluso il contratto le parti hanno l’obbligo di esperire la prova per un congruo termine di reciproca osservazione. Lo esige la buona fede nell’esecuzione del contratto.
Un patto di prova ben fatto non fa sorgere problemi nel caso in cui l’azienda prima della scadenza del termine decida di risolvere il rapporto di lavoro. Nel caso in cui il patto dovesse essere nullo e l’impresa dovesse occupare più di 15 addetti, al lavoratore illegittimamente licenziato spetta un risarcimento del danno che va da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità. Se l’impresa è di dimensioni più contenute il risarcimento va da due a sei mensilità della retribuzione. In tutti i casi la retribuzione mensile si calcola facendo riferimento alla retribuzione utile per il calcolo del tfr. Nella realtà sono frequenti i casi di nullità del patto di prova per assenza dei requisiti che abbiamo indicato. I principi sono chiari ma la loro esistenza non sempre è ben conosciuta da chi nell’azienda gestisce le assunzioni e conclude i contratti di lavoro.