26/09/2021
Il decreto legge n 21 settembre 2021, n. 127, dal 15 ottobre 2021 e fino al 31 dicembre 2021, termine auspicato per la cessazione dello stato di emergenza pandemica, al fine di prevenire la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2, impone l’l’obbligo, a chiunque svolga una attività lavorativa nel settore privato, di possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde COVID-19, per accedere ai luoghi in cui la predetta attività è esercitata.
La disposizione si applica a tutti soggetti che svolgono, a qualsiasi titolo, la propria attività lavorativa o di formazione o di volontariato in questi luoghi anche sulla base di contratti esterni. Da questa disposizione sono esentati solo i soggetti non vaccinabili sulla base di una idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri che saranno definiti prossimamente dal Ministero della salute.
I datori di lavoro hanno l’obbligo giuridico di verificare il rispetto al loro interno di questa prescrizione imperativa.
I datori di lavoro devono definire, entro il 15 ottobre 2021, data di entrata in vigore della legge, le modalità operative per l’organizzazione di queste verifiche, anche a campione, prevedendo prioritariamente, ove possibile, che tali controlli siano effettuati al momento dell'accesso ai luoghi di lavoro. I datori di lavoro devono individuare preventivamente e con atto formale i soggetti incaricati dell’accertamento delle violazioni degli obblighi. I lavoratori interessati devono essere messi prontamente a conoscenza di queste disposizioni e del nome delle persone che eseguono i controlli interni e/o all’ingresso del luogo di lavoro.
La legge non prevede l’obbligo di consultazione dell’azienda con le organizzazioni sindacali Ma sulle modalità di esecuzione dei controlli il sindacato ha il diritto di essere consultato, quanto meno ha il diritto di essere informato. Il coinvolgimento del sindacato è auspicabile per la migliore riuscita delle misure e per evitare eventuali comportamenti antisindacali che potrebbero configurarsi a causa delle previsioni dei vari contratti collettivi di settore.
I lavoratori nel caso in cui comunichino all’azienda di non essere in possesso della certificazione verde COVID-19 o qualora risultino privi della già menzionata certificazione al momento dell'accesso al luogo di lavoro, sono considerati assenti ingiustificati fino alla presentazione della menzionata certificazione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021, auspicabile termine di cessazione dello stato di emergenza. Il mancato possesso della certificazione non ha conseguenze disciplinari. Per i giorni di assenza ingiustificata non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato. Per legge il datore di lavoro non può applicare alcuna sanzione disciplinare, né conservativa né tanto meno espulsiva dal posto di lavoro (rimproveri, multa, sospensione dal lavoro, licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo).
Per le piccole imprese che occupano meno di quindici dipendenti, dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata del lavoratore, il datore di lavoro può sospendere il lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sua sostituzione e, comunque, per un periodo non superiore a dieci giorni, rinnovabili per una sola volta, e non oltre il già menzionato termine del 31 dicembre 2021. A differenza della grande impresa il lavoratore potrebbe non rientrare sul luogo di lavoro immediatamente dopo l’acquisizione del certificato verde, se il datore di lavoro ha provveduto a sostituirlo con un nuovo assunto.
L'accesso di lavoratori ai luoghi di lavoro in violazione di questi obblighi è punito con la sanzione ammnistrativa da 600 a 1500 euro.
In caso di mancata verificazione dell’osservanza delle disposizioni interne, di mancata adozione delle misure organizzative nel termine fissato e dei controlli relativi l'azienda può subire unasanzione amministrativa va da un minimo di 400 a un massimo di 1000 euro.
Per gli accessi al luogo di lavoro senza la certificazione verde il lavoratore è punito con la sanzione amministrativa da 600 a 1.500 euro.
Le sanzioni amministrative sono irrogate dal Prefetto. I soggetti incaricati dell’accertamento e della contestazione delle violazioni devono trasmettere al Prefetto la contestazione della violazione. Il datore che accetta la violazione deve riferire al prefetto e il prefetto applicherà la sanzione. Il datore di lavoro al lavoratore trasgressore potrà applicare la sanzione disciplinare proporzionata al fatto che avrà contestato. Nei casi più gravi si può intimare anche il licenziamento disciplinare perché queste violazioni nulla hanno a che vedere con il possesso del certificato verde e la vaccinazione.
Il patto di prova, contenuti e forma
In occasione della stipulazione di un contratto di lavoro subordinato, le parti possono ben convenire che l’assunzione avvenga con il patto di prova. Inserire in un contratto di lavoro questo patto significa che il datore di lavoro e il lavoratore prima della scadenza del termine finale della prova, possono decidere di sciogliersi liberamente dal contratto. Lo scioglimento può avvenire dall’oggi al domani, senza alcuna conseguenza negativa per il soggetto che assume l’iniziativa di farlo. Chi si scioglie dal rapporto di lavoro non deve dare alcun preavviso e non deve pagare alcuna indennità sostitutiva. Il datore di lavoro non deve dare la prova della sussistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa per poter intimare il licenziamento.
Il patto di prova, però, per essere valido e produrre gli effetti che abbiamo indicato, richiede dei requisiti di forma e di sostanza che possiamo così sintetizzare. Innanzitutto, il patto di prova deve essere concluso in forma scritta. Questa forma è un elemento essenziale. Se le parti dovessero stipulare il patto in forma verbale quel patto sarebbe semplicemente nullo. Non vale niente, come se non fosse mai stato concluso e voluto dalle parti. La nullità del patto di prova significa che il rapporto di lavoro è diventato definitivo e per essere risolto per iniziativa dell’azienda occorrono i rigorosi requisiti previsti dalla legge sulla giustificazione del licenziamento.
Un ulteriore requisito essenziale per la validità del patto di prova è costituito dalla indicazione delle mansioni che dovranno essere oggetto della prova. Le mansioni devono essere ben individuate e specificate nella lettera di assunzione. Le mansioni possono essere individuate anche con il semplice richiamo al contratto collettivo e all’inquadramento. Ma il contratto collettivo così richiamato deve fornire una conoscenza certa delle specifiche mansioni che dovranno essere oggetto della prova e che il lavoratore è chiamato a svolgere. Se il contratto collettivo in quel livello dovesse prevedere diversi profili professionali, la validità del patto di prova è seriamente compromessa.
Nei mesi o nei giorni della prestazione lavorativa, il lavoratore deve essere effettivamente adibito alle mansioni indicate nella lettera di assunzione. Lealtà esige che le mansioni svolte per provarsi reciprocamente debbano essere quelle volute e indicate nell’atto sottoscritto dalle parti.
La durata della prova varia da contratto collettivo a contratto collettivo e con riferimento al livello di inquadramento attribuito al lavoratore. Più alto è il livello più lungo può essere il patto di prova. La prova di un quadro ha necessità di un periodo di reciproca osservazione più lungo rispetto ad un operaio chiamato a svolgere mansioni semplici e ripetitive. La durata massima non può superare i sei mesi. La durata della prova può essere inferiore rispetto a quella indicata dal contratto collettivo ma non può superare la durata massima prevista dal contratto collettivo.
Il patto di prova può essere inserito anche in un contratto a tempo determinato oppure in un contratto a part time o anche in un contratto a part time e a tempo determinato. La durata della prova in un contratto a tempo determinato può essere più contenuto temporalmente rispetto a un contratto a tempo indeterminato. Per conoscere l’effettiva disciplina bisogna sempre far riferimento al contratto collettivo che si applica al rapporto di lavoro e attenersi scrupolosamente alle sue indicazioni.
Concluso il contratto le parti hanno l’obbligo di esperire la prova per un congruo termine di reciproca osservazione. Lo esige la buona fede nell’esecuzione del contratto.
Un patto di prova ben fatto non fa sorgere problemi nel caso in cui l’azienda prima della scadenza del termine decida di risolvere il rapporto di lavoro. Nel caso in cui il patto dovesse essere nullo e l’impresa dovesse occupare più di 15 addetti, al lavoratore illegittimamente licenziato spetta un risarcimento del danno che va da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità. Se l’impresa è di dimensioni più contenute il risarcimento va da due a sei mensilità della retribuzione. In tutti i casi la retribuzione mensile si calcola facendo riferimento alla retribuzione utile per il calcolo del tfr. Nella realtà sono frequenti i casi di nullità del patto di prova per assenza dei requisiti che abbiamo indicato. I principi sono chiari ma la loro esistenza non sempre è ben conosciuta da chi nell’azienda gestisce le assunzioni e conclude i contratti di lavoro.