25/03/2021
Un dipendente, operante nel settore della logistica, in forza di contratto a tempo pieno e indeterminato, con qualifica di operaio ha impugnato il licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto avendo superato i limiti del contratto collettivo che impongono all’azienda di conservare il posto di lavoro per assenze dovute a malattia. I lavoratori di quel settore non più in prova hanno diritto alla conservazione del posto per 245 giorni di calendario se aventi anzianità di servizio non superiore a cinque anni. Il periodo di comporto spettante era stato superato. Per sostenere la illegittimità/nullità del licenziamento il dipendente ha lamentato che esso è stato intimato nel periodo vietato dal decreto c.d. cura Italia, in violazione del divieto previsto dall’ art.46 del DL 18/20 conv. con modificazioni dalla L. 27/20. Effettivamente questo decreto-legge ha disposto il divieto di avvio delle procedure di licenziamento collettivo e la sospensione delle procedure già iniziate, nonché il divieto di recesso per giustificato motivo oggettivo. Il termine iniziale è stato oggetto di successive proroghe ed è vigente fino alla fine del mese di giugno 2021. Nella difesa del dipendente, il licenziamento per superamento del periodo di comporto rientrerebbe nella figura più generale del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il presidente del tribunale sezione lavoro di Milano ha rigettato questa ricostruzione. Per il Presidente della sezione "Il licenziamento per superamento del periodo di comporto, sebbene presenti caratteri analoghi, è dotato di una disciplina specifica distinta da quella del licenziamento per motivo oggettivo. E difatti, una volta che il periodo di comporto sia trascorso, tale circostanza diviene di per sé sufficiente a legittimare il licenziamento, non essendo richiesta un’accertata incompatibilità fra le prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell’impresa, potendosi intimare il licenziamento anche nei casi in cui il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali. 11. Come hanno chiarito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza 22.5.2018 n. 12568, nell’art. 2110, comma 2, c.c. si rinviene «un’astratta predeterminazione del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale». La diversità ontologica tra licenziamento per superamento del comporto e licenziamento per g.m.o. è stata ribadita ancora di recente dalla Corte di Cassazione, che ha affermato (Cass. n. 31763 del 07/12/2018, Cass. n. 1404 del 31/01/2012) che “Le regole dettate dall'art. 2110 cod. civ. per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali che su quella degli articoli 1256 e 1463 e 1464 cod. civ., e si sostanziano nell'impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso; le stesse regole hanno quindi la funzione di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione), riversando sull'imprenditore, in parte ed entro un determinato tempo, il rischio della malattia del dipendente. Ne deriva che il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente a legittimare il recesso, e pertanto non è necessaria, nel caso, la prova del giustificato motivo oggettivo né dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa né quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse”. Neppure è possibile, in assenza di un richiamo specifico all’art.2110 c.c., interpretare estensivamente l’art.46 d.l. n.18/2020 fino a ricomprendevi tale fattispecie. Infatti, la ratio del divieto di licenziamento introdotto dal decreto c.d. “Cura Italia”, è stata quella di «contenere gli effetti negativi che l'emergenza epidemiologica COVID-19 sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale» (così testualmente l’epigrafe al decreto legge) e quindi di mantenere i livelli occupazionali in presenza di una situazione di crisi eccezionale, causata da fattori diversi ed estranei rispetto alle normali dinamiche del mercato del lavoro. Tale esigenza non si rinviene nell’ipotesi di recesso per superamento del comporto, circostanza che potrebbe verificarsi anche prescindendo dall’epidemia di Covid-19.
Sentenza n. 314/2021 pubbl. il 04/03/2021 del tribunale di Milano presidente Dott.ssa Paola Ghinoy
AI CLIENTI DELLO STUDIO
Per una migliore organizzazione, in termini di efficienza e di assoluta tempestività, per le consultazioni con lo studio, che abbiano carattere di urgenza, vi suggeriamo di usare la videoconferenza. Realizzare un sistema di videoconferenza è estremamente semplice, e a costo zero. Un computer, che abbia un video con le casse incorporate, e il collegamento via internet con banda larga é tutto quello che occorre. Il sistema consente di avere confronti e colloqui in via immediata, con risparmio di tempo e di costi da parte di tutti. Uno strumento eccezionale per il lavoro e per il collegamento tra i vostri uffici e lo studio.
La professione di avvocato incide nel campo della libertà, della sicurezza, della giustizia e, in modo più ampio, sulla protezione dello Stato di diritto. Essa si esercita con autonomia e indipendenza, dignità ed onore, segretezza professionale e lealtà, al fine di tutelare i diritti e gli interessi della persona nei confronti tanto dei privati quanto dei pubblici poteri, contribuendo così alla applicazione delle leggi ed alla corretta amministrazione della giustizia. In una società democratica l’Avvocatura rappresenta un baluardo normativo nella difesa dell’interesse pubblico al perseguimento della giustizia. L’avvocato, dunque, non è mero prestatore di servizi, in un’ottica di puro mercato; il suo é un impegno professionale e sociale, perché al di là del singolo caso concreto, che vede protagonisti le parti del processo, vi sono regole e principi generali che compongo l’ordinamento giuridico, sul cui rispetto è fondata la pacifica convivenza di tutti. Come scriveva l’illustre giurista, e Costituente, Piero Calamandrei: “Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore. Ma l’avvocato no. (…) L’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. L’avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di carità. Per questo amiamo la toga: per questo vorremmo che, quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero: al quale siamo affezionati perché sappiamo che esso ha servito a riasciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso: e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia”. L’avvocato è strumento stesso della giustizia, nella misura in cui avvicina chi ha subito un torto al giudice, che è chiamato a fornire il giusto rimedio di legge. Avv. Paolo Gallo