16/01/2021
Il lavoratore ha chiesto l'ammissione allo stato passivo della somma dovuta a titolo di trattamento di fine rapporto delle ultime tre mensilità di retribuzione che la società fallita non aveva corrisposto. Il giudice della procedura fallimentare non ammetteva il credito al passivo del fallimento; analoga decisione è stata assunta dal giudice dell'opposizione allo stato passivo al quale il lavoratore si era rivolto.
Contro questa decisione del Tribunale, il lavoratore interessato ha proposto ricorso in Cassazione.
La Corte di Cassazione è stata costretta a dover rigettare il ricorso perché il lavoratore non aveva fornito giudizialmente né la prova documentale né quella testimoniale del rapporto di lavoro; la Corte di Cassazione ha ribadito i seguenti principi che disciplinano la materia.
1. Il curatore in sede di accertamento del passivo è un soggetto terzo; la stipulazione di un negozio giuridico in epoca anteriore al fallimento può essere oggetto di prova con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento;
2. le buste paga rilasciate del datore di lavoro successivamente fallito sono valide come prova contro la procedura fallimentare se risultano essere munite, alternativamente, della firma, della sigla o del timbro del datore di lavoro, salva la facoltà della procedura fallimentare di poterle contestare con specifiche deduzioni e argomentazioni volti a dimostrarne l’infondatezza; la valutazione finale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.
Nel caso sottoposto al suo esame, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che il credito era stato giustamente escluso dall'ammissione al passivo perché le buste paga non avevano i requisiti richiesti dalla legge ed il lavoratore non aveva fornito la prova, nemmeno testimoniale, della sua prestazione lavorativa a favore dell'azienda fallita.
Nel caso esaminato non è stata data alcuna prova che il lavoratore avesse effettivamente reso la sua prestazione lavorativa a favore dell’azienda fallita.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 9 luglio 2020 – 7 gennaio 2021, n. 74
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La professione di avvocato incide nel campo della libertà, della sicurezza, della giustizia e, in modo più ampio, sulla protezione dello Stato di diritto. Essa si esercita con autonomia e indipendenza, dignità ed onore, segretezza professionale e lealtà, al fine di tutelare i diritti e gli interessi della persona nei confronti tanto dei privati quanto dei pubblici poteri, contribuendo così alla applicazione delle leggi ed alla corretta amministrazione della giustizia. In una società democratica l’Avvocatura rappresenta un baluardo normativo nella difesa dell’interesse pubblico al perseguimento della giustizia. L’avvocato, dunque, non è mero prestatore di servizi, in un’ottica di puro mercato; il suo é un impegno professionale e sociale, perché al di là del singolo caso concreto, che vede protagonisti le parti del processo, vi sono regole e principi generali che compongo l’ordinamento giuridico, sul cui rispetto è fondata la pacifica convivenza di tutti. Come scriveva l’illustre giurista, e Costituente, Piero Calamandrei: “Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore. Ma l’avvocato no. (…) L’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. L’avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di carità. Per questo amiamo la toga: per questo vorremmo che, quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero: al quale siamo affezionati perché sappiamo che esso ha servito a riasciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso: e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia”. L’avvocato è strumento stesso della giustizia, nella misura in cui avvicina chi ha subito un torto al giudice, che è chiamato a fornire il giusto rimedio di legge. Avv. Paolo Gallo