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Lo tsunami della pandemia ha riportato all’attenzione di tutti la morte

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20/12/2020

L'Iliade omerica inizia con la descrizione della peste che ha colpito il campo acheo

Eravamo tutti convinti che tragedie del passato non sarebbero più sopraggiunte nell’età della tecnologia e della nuova scienza medica. Eppure siamo tutti qui a prendere atto della nostra impotenza contro un virus che si sta rivelando peggio di uno tsunami.

Questa è almeno la sensazione della maggioranza anche se non mancano i nuovi don Ferrante. Chi era costui? Si tratta di uno strano personaggio dei Promessi sposi del Manzoni. Di fronte all’imperversare della peste il presunto intellettuale disquisiva sulla reale esistenza della peste. Secondo la cultura aristotelica del tempo i quattro elementi costitutivi della materia erano acqua, aria, terra, fuoco. Se si riuscisse a dimostrare che la peste non appartiene a nessuno di questi elementi, si dimostrerà che la peste non esiste. Don Ferrante concluse che il morbo non apparteneva né all’acqua, né all’aria, né alla terra, né al fuoco. Morì di peste. Purtroppo i don Ferrante non sono spariti. D’altra parte molte realtà non esistono fino a quando non ci toccano da vicino. Anche perché secondo alcuni in una società di massa un morto in più o in meno non fa differenza soprattutto quando si è ultrasettantenni del tutto inutilizzabili dalla catena produttiva e quindi perfettamente inutili. Per fortuna qualcuno ha avuto di coraggio di rendere esplicito quanto si pensava in certi ambienti. Perché non sgozzare tutti i pensionati? Sarebbe un bel guadagno per le casse dell’Inps.

Eppure lo tsunami morboso ha riportato all’attenzione di tutti qualcosa di positivo: in questo mondo esiste pure la morte. Ce n’eravamo dimenticati o l’avevamo relegato ad un evento passeggero. Una inevitabile scocciatura in occasione di decessi altrui.

Chi invece dovesse dare uno sguardo anche fugace alla storia, si accorgerà della sua presenza. Il primo grande poema dell’Occidente, l’omerica Iliade, inizia parlando della peste che ha colpito il campo acheo perché Agamennone non ha voluto restituire dietro compenso la schiava Criseide al padre che si era presentato supplice con i “paramenti” di Apollo. Per punizione il dio aveva fatto sorgere la peste nell’esercito greco. Memorabile rimane la descrizione della peste del 430 a. C. in Tucidide, nella quale trovò la morte Pericle. Lo storico ateniese ne scrive perché, qualora scoppi una nuova epidemia, l’uomo possa riconoscerla tempestivamente, avendone una qualche esperienza. Dopo un forte calore alla testa accompagnato da arrossamento e infiammazione degli occhi venivano colpiti gola e lingua con starnuti e raucedine. Successivamente il male prendeva tutto il corpo. Secondo l’opinione pubblica l’origine del male era dovuto al castigo della divinità. Il razionale Tucidide la ascriveva all’affollamento determinatosi con il trasferimento in città degli Ateniesi che vivevano in campagna. Le conseguenze sociali ed economiche furono a tutti evidenti.

D’altronde la storia è stata sempre caratterizzata da simili eventi. Ricordarli tutti è impossibile. Tra le più famose si possono ricordare la peste antonina del 165-180 che colpì l’impero romano e che certamente fu una delle cause dell’inizio della fine dell’impero romano. Secondo alcuni calcoli un numero tra 5 e 30 milioni vi avrebbero lasciato le penne. Non meno letale fu la peste di Giustiniano. A dire di Procopio morivano ogni giorno 5.000-10,000 persone. Ogni secolo ha conosciuto la sua “peste”.

Anche in tempi recentissimi non sono mancati casi di pandemie in varie parti del pianeta. Hanno però interessato solo alcuni paesi del cosiddetto terzo mondo. Per il mondo occidentale quindi sono esistite esclusivamente come notizie giornalistiche. Si è creduto che il nostro mondo fosse ormai immune da certe malattie che riguardavano altri. Esiste una nemesi? A questo punto non se ne può dubitare. Questa volta la pandemia ha colpito l’Occidente economicamente avanzato. La medicina si è trovata davanti un morbo sconosciuto. È stata costretta ad andare a tentoni. Fedeli al giuramento di Ippocrate e con grande sacrificio di sé stessi molti medici hanno pagato di persona la loro abnegazione al dovere. Vengono in mente ancora una volta le parole di Tucidide: “nulla potevano i medici, che non conoscevano quel male e si trovavano a curarlo per la prima volta – ed anzi erano i primi a caderne vittime in quanto erano loro a trovarsi più a diretto contatto con chi ne era colpito – e nulla poteva ogni altra arte umana”. Per nostra fortuna oggi le condizioni non sono minimamente confrontabili. La scienza è stata la vera rivoluzione dell’ultimo secolo. Ha cambiato le nostre aspettative di vita e il nostro essere. La notizia della scoperta di un nuovo vaccino capace di debellare la “nuova peste” è stata accolta con grida di tripudio. Eppure ci si accorge dell’oscuro lavorìo degli scienziati solo in queste occasioni estreme. Per fortuna esistono persone che fanno tesoro della loro vita utilizzandola per il progresso dell’umanità. Che diranno adesso tutti coloro che si sono scagliati contro i vaccini? Purtroppo di imbecillita sono piene le cronache storiche.Difatti comunemente l’attenzione dei mass-media è rivolta quasi esclusivamente all’effimero o alle teste calde che sproloquiano nei mezzi di comunicazione. Come dicono a Roma: apre bocca e je dà fiato. Certamente non sono mancati cosiddetti scienziati che hanno asservito il sapere a interessi di parte. Vale la pena ricordare quel primario che aveva proclamato la fine del coronavirus e accusava i colleghi di “creare allarmismo”. Nonostante tutte le cavolate imperversa ancora nei show televisivi.

Viene in mente una poesia di Giuseppe Giusti, ormai messo in dimenticatoio, intitolata “Re travicello” e dedicata a Carlo Alberto:

Al Re Travicello
piovuto ai ranocchi,
mi levo il cappello
e piego i ginocchi:
lo predico anch’io
cascato da Dio:
oh comodo, oh bello
un Re Travicello!

Calò nel suo regno
con molto fracasso;
le teste di legno
fan sempre del chiasso:
ma subito tacque,
e, al sommo dell’acque,
rimase un corbello:
il Re Travicello.

Da tutto il pantano,

veduto quel coso:
“È questo il Sovrano
così rumoroso?”
s’udì gracidare.
“Per farsi fischiare
fa tanto bordello
un Re Travicello?

E, accanto a scienziati di grande rigore professionale (che per nostra fortuna sono la maggioranza), di teste di legno ne abbiamo sentite parecchie. Speriamo che questa pandemia serva a qualcosa. Se spariranno dal pubblico schermo i vani sproloqui delle teste di legno (che pure ci impediscono di sentire discorsi sensati) e se riusciremo a smentire il vecchio proverbio (la madre dei cretini è sempre incinta) questa pandemia avrà apportato qualcosa di buono.

dicembre 2020

Prof. Emilio Galvagno

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La professione di avvocato incide nel campo della libertà, della sicurezza, della giustizia e, in modo più ampio, sulla protezione dello Stato di diritto. Essa si esercita con autonomia e indipendenza, dignità ed onore, segretezza professionale e lealtà, al fine di tutelare i diritti e gli interessi della persona nei confronti tanto dei privati quanto dei pubblici poteri, contribuendo così alla applicazione delle leggi ed alla corretta amministrazione della giustizia. In una società democratica l’Avvocatura rappresenta un baluardo normativo nella difesa dell’interesse pubblico al perseguimento della giustizia. L’avvocato, dunque, non è mero prestatore di servizi, in un’ottica di puro mercato; il suo é un impegno professionale e sociale, perché al di là del singolo caso concreto, che vede protagonisti le parti del processo, vi sono regole e principi generali che compongo l’ordinamento giuridico, sul cui rispetto è fondata la pacifica convivenza di tutti. Come scriveva l’illustre giurista, e Costituente, Piero Calamandrei: “Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore. Ma l’avvocato no. (…) L’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. L’avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di caritàPer questo amiamo la toga: per questo vorremmo che, quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero: al quale siamo affezionati perché sappiamo che esso ha servito a riasciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso: e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia”. L’avvocato è strumento stesso della giustizia, nella misura in cui avvicina chi ha subito un torto al giudice, che è chiamato a fornire il giusto rimedio di legge. Avv. Paolo Gallo