05/09/2019
Un' impiegata ha prestato la sua attività lavorativa per quasi quarant'anni alle dipendenze di un'azienda. Essa, dopo questi decenni di serena prestazione lavorativa, ha risolto il rapporto di lavoro presentando le dimissioni. Dopo la presentazione delle dimissioni, e durante il periodo di preavviso, la società datrice di lavoro le ha contestato delle gravissime negligenze e infedeltà nell'adempimento delle mansioni assegnate. La lavoratrice ha respinto ogni contestazione ma l'azienda, ritenendo fondate le sue accuse, ha trattenuto dalle competenze di fine rapporto, che doveva alla lavoratrice, la somma di euro 200.000 a titolo di risarcimento dei danni subiti in conseguenza di quelle inadempienze, operando la compensazione tra gli opposti crediti. Quel risarcimento dei danni così ha assorbito interamente le competenze di fine rapporto maturate. La lavoratrice ha reagito promuovendo l'azione di pagamento avanti il Tribunale di Milano. L'azienda ha resistito contro questa richiesta chiedendo al tribunale che le fosse riconosciuto questo importo, trattenuto a titolo di risarcimento dei danni, ma sbaglia nel proporre la sua difesa perché, pur svolgendo questa domanda riconvenzionale, omette di chiedere al giudice lo slittamento dell'udienza. Il Tribunale ha, così, dichiarato l'inammissibilità della domanda risarciotria dell’azienda e, comunque, ha colto l'occasione per affermare incidentalmente, che il datore di lavoro, in quel contesto giuridico, non aveva il diritto di operare in modo unilaterale ed arbitraria quella compensazione tra gli opposti crediti trattenendo le competenze di fine rapporto. Si tratta di una compensazione che ha definito "atecnica". La domanda di risarcimento dell'azienda è stata respinta anche perché aveva l'onere di dare la prova idonea e rigorosa delle accuse rivolte contro la lavoratrice. Questa prova non era stata offerta.
L’azienda se dovesse vantare crediti risarcitori contro il suo dipendente prima di poterli compensare con la retribuzione o le competenze di fine rapporto deve munirsi di una sentenza per rendere il suo credito certo, liquido ed esigibile.
Tribunale di Milano sentenza numero 1895 pubblicata il 22 agosto 2019.
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La professione di avvocato incide nel campo della libertà, della sicurezza, della giustizia e, in modo più ampio, sulla protezione dello Stato di diritto. Essa si esercita con autonomia e indipendenza, dignità ed onore, segretezza professionale e lealtà, al fine di tutelare i diritti e gli interessi della persona nei confronti tanto dei privati quanto dei pubblici poteri, contribuendo così alla applicazione delle leggi ed alla corretta amministrazione della giustizia. In una società democratica l’Avvocatura rappresenta un baluardo normativo nella difesa dell’interesse pubblico al perseguimento della giustizia. L’avvocato, dunque, non è mero prestatore di servizi, in un’ottica di puro mercato; il suo é un impegno professionale e sociale, perché al di là del singolo caso concreto, che vede protagonisti le parti del processo, vi sono regole e principi generali che compongo l’ordinamento giuridico, sul cui rispetto è fondata la pacifica convivenza di tutti. Come scriveva l’illustre giurista, e Costituente, Piero Calamandrei: “Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore. Ma l’avvocato no. (…) L’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. L’avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di carità. Per questo amiamo la toga: per questo vorremmo che, quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero: al quale siamo affezionati perché sappiamo che esso ha servito a riasciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso: e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia”. L’avvocato è strumento stesso della giustizia, nella misura in cui avvicina chi ha subito un torto al giudice, che è chiamato a fornire il giusto rimedio di legge. Avv. Paolo Gallo