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Timbra il cartellino del collega: legittimo il licenziamento intimato dalla società

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24/03/2016

Con sentenza del 2013 la Corte di appello aveva riformato la sentenza del giudice di primo grado che aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto da un lavoratore avverso il licenziamento intimatogli da una società cooperativa. La Corte di appello, nell’occasione, aveva ritenuto che il dipendente avesse timbrato volontariamente il cartellino di un collega che sapeva essere assente dal lavoro, elemento, questo, idoneo ad integrare una frode atta ad incidere sul sistema dei controlli necessari del personale, oltre che a compromettere il rapporto fiduciario non risultando adeguata, sia per la società, sia per i giudici di merito, una sanzione conservativa del posto di lavoro.

Il lavoratore ha, pertanto, proposto ricorso per Cassazione, contestando l'affermazione della Corte di appello per la quale la sola circostanza della timbratura al posto del collega assente, avente rilevanza penale e disciplinare, comportava di per sé la perdita del rapporto fiduciario, senza tenere, invece, conto del comportamento riparatorio di esso lavoratore e della sproporzione della sanzione, anche in considerazione dell'assenza di precedenti disciplinari durante l'intera durata del rapporto di lavoro. Pronunciatasi nel caso in esame, la Suprema Corte ha totalmente disatteso la difesa del lavoratore. I giudici di legittimità, infatti, hanno dichiarato che i dati istruttori raccolti dai giudici di merito offrivano elementi per ravvisare nel comportamento del lavoratore una “frode, attuata attraverso la disinvolta violazione delle norme disciplinari e l'elusione dei sistemi di controllo datoriale, che incideva sul sistema dei controlli necessari e tanto più complessi per il rilevante numero dei lavoratori, il cui adempimento agli obblighi contrattuali si trattava di verificare”. Inoltre, la Cassazione ha spiegato che “la disinvolta violazione delle norme disciplinari e l'elusione dei sistemi di controllo approntati dalla datrice di lavoro rappresentavano sul piano soggettivo degli elementi che comportavano inevitabilmente il venir meno dei rapporto di fiducia in termini incompatibili con la prosecuzione, sia pure temporanea, del rapporto e non consentivano di ritenere adeguata una mera sanzione conservativa”. Il ricorso, quindi, è stato rigettato, con la conferma del licenziamento e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. (Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 dicembre 2015 – 23 marzo 2016, n. 5777).

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