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La minaccia:“ ti distruggo”, licenziamento legittimo

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05/02/2016

Un dipendente con la qualifica di autista ha avuto una discussione con l'amministratore della società, durante la quale aveva proferito frasi offensive e minacciose (fra cui "io ti distruggo", "ti spacco il fondoschiena"). Il tribunale riteneva il licenziamento illegittimo e ordinava la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. La corte di appello, ha riformato la sentenza ritenendo  che la condotta integrasse gli estremi dell'insubordinazione e dell'offesa al datore di lavoro e come tale apparisse idonea a minare l'elemento fiduciario, costituendo grave negazione del dovere di diligenza di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 2104 del codice civile, anche tenuto conto del contesto nel quale era maturato l'episodio, preceduto dalle legittime rimostranze dell'azienda per non avere il dipendente prontamente informato la direzione aziendale di un asserito infortunio sul lavoro.

La corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi, ha confermato la sentenza affermando che “In virtù di costante giurisprudenza di questa S.C., peraltro, per giustificare un licenziamento disciplinare i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l'elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo (cfr., per tutte, Cass. n. 25608/2014 e 7394/2000).” Per la Corte di Cassazione, la Corte di Appello “ ha fatto corretta applicazione di tali principi, in quanto la motivazione ha esaminato più aspetti, riguardando sia la condotta minacciosa ed ingiuriosa in sé, che il contesto dei rapporti nei quali si è inserita, che la sua valutazione nel codice disciplinare.”Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 1595/16; depositata il 28 gennaio).

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La professione di avvocato incide nel campo della libertà, della sicurezza, della giustizia e, in modo più ampio, sulla protezione dello Stato di diritto. Essa si esercita con autonomia e indipendenza, dignità ed onore, segretezza professionale e lealtà, al fine di tutelare i diritti e gli interessi della persona nei confronti tanto dei privati quanto dei pubblici poteri, contribuendo così alla applicazione delle leggi ed alla corretta amministrazione della giustizia. In una società democratica l’Avvocatura rappresenta un baluardo normativo nella difesa dell’interesse pubblico al perseguimento della giustizia. L’avvocato, dunque, non è mero prestatore di servizi, in un’ottica di puro mercato; il suo é un impegno professionale e sociale, perché al di là del singolo caso concreto, che vede protagonisti le parti del processo, vi sono regole e principi generali che compongo l’ordinamento giuridico, sul cui rispetto è fondata la pacifica convivenza di tutti. Come scriveva l’illustre giurista, e Costituente, Piero Calamandrei: “Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore. Ma l’avvocato no. (…) L’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. L’avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di caritàPer questo amiamo la toga: per questo vorremmo che, quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero: al quale siamo affezionati perché sappiamo che esso ha servito a riasciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso: e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia”. L’avvocato è strumento stesso della giustizia, nella misura in cui avvicina chi ha subito un torto al giudice, che è chiamato a fornire il giusto rimedio di legge. Avv. Paolo Gallo