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REFERENDUM DEL 25 GIUGNO

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08/01/2014



Il 25 giugno 2006 si esprime un sì o un no per modificare, per la prima volta nella nostra storia, ben 50 articoli della Costituzione repubblicana. Ancor più si vota per abbattere o salvare un edificio forse ingrigito dal tempo, forse non privo di qualche crepa, ma nei fatti capace di garantire sessanta anni di solidità democratica e di libertà diffusa.

Sostituire un’intera parte della Costituzione non significa infatti solo modificare un testo ma, con le parole del Presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, «incidere su un tessuto vivo, su un patrimonio costruito in cinquant'anni di attuazione legislativa e di applicazione pratica e giurisprudenziale.

Di qui la prima, vera questione: perché cambiare? una riforma della Costituzione così ampia era davvero necessaria? La seconda parte della Costituzione è davvero così inadatta a interpretare le istanze di buon governo e di equilibrio tra i poteri di uno stato moderno, da dover essere revisionata radicalmente? non sarebbe stato più opportuno percorrere la via maestra, indicata dall’art. 138, di riforme costituzionali specifiche e mirate?

In altre parole, non sarebbe stato più utile concentrarsi sulle singole disposizioni che più risentono del peso degli anni e del passaggio ad un sistema bipolare – riformando ad esempio l’attribuzione alle camere della verifica delle elezioni, le maggioranze richieste per l’elezione del Presidente della Repubblica, il bicameralismo perfetto – piuttosto che immaginare una sorta di grande palingenesi costituzionale? 

La Costituzione americana, con un nuovo emendamento di media ogni ventennio, costituisce l’esempio più chiaro del fatto che le Costituzioni nascono per essere durevoli, per assicurare la stabilità di un ordinamento e non per inseguire tutti i mutamenti apparenti della società. 

Davvero si vuole abolire con un tratto di penna intere biblioteche e, più grave, un patrimonio vivo di esperienze costituzionali, di giurisprudenza, di consuetudini e di prassi.

Il primo no non è dunque puro conservatorismo, ma consapevolezza che la Costituzione repubblicana ha garantito e garantisce una saggia divisione dei poteri, l’indipendenza degli organi di garanzia, un equilibrato rapporto tra governo e Parlamento. Ma di certo non è una Costituzione che impone governi deboli: dopo la riforma elettorale del 1993 ha consentito il bipolarismo, la formazione di governi stabili, l’alternanza, la possibilità per gli esecutivi di attuare il proprio programma in Parlamento. Per frenare il potere ricattatorio dei partiti non serve dunque il capovolgimento così radicale delle norme costituzionali, ma il mutamento dei comportamenti degli attori politici e semmai della sciagurata nuova legge elettorale.

Il secondo no è nel merito e riguarda la corrispondenza tra i fini perseguiti e gli esiti concreti che si produrranno. Davvero le nuove disposizioni sulla forma di governo assicureranno l'efficienza del sistema decisionale e la stabilità degli esecutivi? Davvero risolveranno in modo moderno ed efficiente la questione del bicameralismo, con un vero Senato federale espressione delle autonomie? Davvero il riparto di competenze tra Camera e Senato faciliterà la speditezza dei lavori parlamentari? E la riforma del titolo V davvero realizzerà l’autogoverno delle regioni nelle materie cruciali della sanità e della scuola e un più chiaro riparto di competenze tra stato e regioni?

Se le risposte fossero positive, forse si potrebbe considerare che quello che si perde in garanzie si potrebbe acquistare in termini di efficienza e stabilità. Purtroppo, entrando nelle pieghe del testo si scopre che il nuovo sistema istituzionale rafforza il peso del governo nei confronti della Camera e del Presidente della Repubblica, ma lo pone in balia di qualsiasi partitello della coalizione, che togliendo il proprio appoggio può provocare automaticamente lo scioglimento della Camera (art. 94). Realizza un bicameralismo nel quale Camera e Senato si paralizzeranno e discuteranno in eterno sulle proprie sfere di competenza previste da un nuovo articolo 70, lungo e oscuro, senza poter nemmeno rivolgersi alla Corte per un giudizio definitivo. 

Prevede un falso Senato federale, non rappresentativo delle regioni, ma nemmeno più legato da un rapporto fiduciario. Il cosiddetto “Senato federale” è composto in modi e tempi diversi dalla Camera ed è capace di impedire la realizzazione del programma di governo, se non addirittura di approvare un indirizzo politico alternativo, nelle materie di propria competenza (artt. 57 e 70).

Le competenze esclusive regionali nelle materie di assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica e polizia locale (art. 117) non significano affatto sottrazione allo Stato di un intervento in questo ambito, previsto in altre parti dello stesso articolo. Significa però dare la possibilità di disarticolare il sistema scolastico e sanitario, in contrasto con il principio costituzionale di solidarietà e di eguaglianza nel godimento dei diritti civili e sociali.

Il terzo no riguarda la riduzione del sistema delle garanzie e della equilibrata divisione dei poteri L’idea stessa di Costituzione nasce come patto condiviso, che protegge le minoranze contro gli abusi della maggioranza e garantisce il bilanciamento tra i poteri.

La riforma indebolisce il Presidente della Repubblica, sottraendogli i due poteri più delicati e rilevanti in materia di formazione del governo e di scioglimento delle camere e rendendolo, più che un “garante della Costituzione”, un notaio di decisioni altrui (artt. 92 e 94).

Fa divenire sostanzialmente irrilevante la Camera, priva della facoltà di fissare il proprio ordine del giorno (art. 72) e sottoposta al potere di vita e di morte del governo e del premier (art. 94), che ne sarebbe il padrone assoluto. 

Aumenta la politicizzazione della Corte, modificando i criteri per la composizione e naturalmente sottoponendo la Corte ad una maggiore influenza da parte delle camere, che eleggerebbero sette giudici anziché cinque (art. 135).

Si possono poi molte elencare altre ragioni per dire di no: ad esempio l’entrata in vigore della riforma paralizzerebbe la possibilità di riformare la nuova legge elettorale, in virtù di una semisconosciuta norma transitoria (art. 53, n. 7 del disegno di legge).

Del resto, quanto poco siano considerate le riforme dagli stessi proponenti è provato dal fatto che tutte le modifiche sono destinate ad entrare in vigore tra molti anni, con l’eccezione della sola “devolution”. Il rinvio è poi praticamente sine die per la tanto pubblicizzata riduzione del numero dei parlamentari (art. 53 del d.d.l.). 

Vi è poi un quarto no: riformare l’intera seconda parte della Costituzione significa incidere sull’intero testo, sui principi fondamentali e sulla prima parte, dedicata ai diritti e doveri dei cittadini. Modificare le competenze delle regioni o le funzioni degli organi di garanzia significa incidere sul livello di tutela dei diritti civili e sociali. È anche per questo che, forse per pregiudizio, forse per saggezza, ci fidiamo di più dei vecchi padri costituenti che dei quattro che si sono ritrovati in una baita di montagna nella calda estate del 2003, per inventarsi nuovi e improbabili modelli costituzionali.

Per questi ed altri motivi il nostro studio al referendum voterà per il no!

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