06/09/2020
Nei romanzi che costituiscono la Trilogia della solitudine (Il processo, America, il Castello), K è l’iniziale dei nomi dei protagonisti, altrettanti alter ego dell’autore, lo scrittore ceco Franz Kafka.
I romanzi, incompiuti, sono attraversati da un profondo senso di solitudine e di angoscia, dall’idea dell’uomo schiacciato da un’opprimente burocrazia, leit-motiv di queste storie, insieme al senso di colpa, che non può essere espiata, perché non può essere conosciuta. Il protagonista del Processo, infatti, ignora di che cosa venga accusato; oppure la sua colpa è del tutto irrilevante rispetto al castigo inferto (America); l’agrimensore K. si consuma inutilmente nell’attesa di poter essere ammesso alla fortezza (Il Castello) senza riuscirci per una serie di assurdi passaggi burocratici.
La Fondazione Prada di Milano celebra il genio dello scrittore con una mostra ispirata alla Trilogia e concepita come un trittico che comprende un film, un’opera sonora ed un’installazione.
Il film di Orson Welles, il Processo, con un inquietante Anthony Perkins protagonista e il regista stesso nel ruolo dell’avvocato, è una potente rappresentazione in bianco e nero dell’uomo qualunque preso negli ingranaggi del potere giudiziario: personaggi enigmatici circondano K., che si aggira in ambienti desolati o sovraffollati (il Tribunale), fino alla tragica conclusione. La razionalità umana scompare nell’universo impenetrabile del Tribunale e la degradazione di ogni norma è visibile nello sfacelo degli ambienti, nel disordine e nella sporcizia.
Le immagini del film mi accompagnano fino ad un altro grande ambiente della Fondazione, simile ad una fortezza, dove i Tangerine Dream, una band tedesca, rievocano le atmosfere del Castello attraverso una magnetica musica elettronica.
Oggi, in tempi di lock down per la pandemia, ripenso a ciò che un personaggio del romanzo dice all’agrimensore K., che non capisce nulla di quel che deve fare per entrare al Castello. Tutto è concepito perché lui non lo capisca “Dovunque lei vada sia sempre consapevole di una cosa, e cioè che Lei è nell’ignoranza più totale, e sia prudente “. Ho anch’io provato questa sensazione, di non capire ciò che stava succedendo intorno a me, e non solo a causa delle informazioni degli esperti e del governo, molte volte contradditorie o errate, ma soprattutto per il clima di angosciosa attesa: ci sarà un rimedio a questo male? Arriverà sotto forma di un farmaco? Di un vaccino? Mi sono sentita come K., impotente ma ligia alle regole che non sempre comprendevo.
E infine, per ritornare alla mostra, il “colpo di teatro” finale: la ricostruzione visionaria del “gran teatro dell’Oklahoma”, citato nel terzo romanzo, America, dove Karl Rossmann, un sedicenne accusato di aver sedotto una cameriera e perciò cacciato di casa dal padre, viene mandato in America per cancellare la sua colpa. Nel Paese che sembra incarnare l’idea stessa di una libertà sconfinata, Karl perde i suoi sogni, si smarrisce. L’installazione di Martin Kippenberger “The happy end of Franz Kafka’s Amerika” si rifà alla parte del romanzo in cui il protagonista cerca un’occupazione nel “teatro più grande del mondo”. L’artista tedesco ricrea un campo da calcio, dove inserisce oltre 40 combinazioni di tavole e sedie, elementi di design, vintage e da mercatino delle pulci. Lo scopo è di rievocare i colloqui di lavori che si potrebbero svolgere attorno a quei tavoli. Il titolo dell’installazione si richiama a un happy end, raro nei romanzi di Kafka. In realtà, lo scrittore descrive l’America non come terra di opportunità (come sperava il giovane Rossmann) ma come un mondo dominato dallo sfruttamento e dalla sopraffazione.
Come fa notare il curatore Udo Kittelmann, la mostra può essere considerata una narrazione dei “moventi più oscuri della vita umana”, come pensava Walter Benjamin riferendosi all’opera di Kafka. I tre elementi del trittico, paragonabili ad una pala d’altare, in cui la tavola centrale è costituita da America, e gli altri due elementi formano i pannelli laterali, definiscono una visione delle inquietudini della vita. In fondo, come ha scritto Kafka,“…l’Inconcepibile è inconcepibile, e questo si sapeva”.
Giugno 2020 Liviana Martin
P. s L'articolo è pubblicato su New art examiner del mese di luglio agosto 2020