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Prima del licenziamento per motivi organizzativi, l’azienda deve offrire al lavoratore un posto inferiore per scongiurare il provvedimento

Il licenziamento è illegittimo se si ha una posizione inferiore da potergli far occupare

L’azienda sopprime il posto di lavoro perché ha deciso di esternalizzare l’attività di vendita alla quale un lavoratore era addetto. Prima di intimare il licenziamento, però, l’azienda offre a quel lavoratore la possibilità di poterlo continuare ad utilizzare adibendolo a mansioni inferiori. Il lavoratore non accetta. Di fronte al rifiuto del lavoratore l’azienda intima il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

I giudici di merito, Tribunale e Corte d’Appello, hanno respinto l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore che non soddisfatto, ha proposto ricorso in Cassazione.

La Corte di Cassazione, decidendo la controversia ha ribadito che, “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa: non essendo la scelta imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro, sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Costituzione; sempre che, s’intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non risultando il recesso pretestuoso.
Quanto all’onere di repêchage, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione del posto cui era addetto il lavoratore, il datore ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.

L’art. 2103 c.c., deve, infatti, essere interpretato alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e di quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, quali il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 7, comma 5, L. n. 68 del 1999, art. 1, comma 7, D.Lgd. n. 223 del 1991, art. 4, comma 11, anche come da ultimo riformulato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3, comma 2: senza necessità, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, di un patto di demansionamento o di una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, essendo onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale.” Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 29099/19; depositata l’11 novembre.


Per la Cassazione, la Corte d’Appello ha esattamente applicato i principi del nostro ordinamento giuridico: vi è stata un’ effettiva soppressione del posto di lavoro per la esternalizzazione dell’attività; questa esternalizzazione è realmente avvenuta perché è stata riconosciuta dallo stesso lavoratore interessato; all’interno dell’azienda non vi erano posti disponibili  a cui poter adibire quel lavoratore corrispondenti al suo livello di inquadramento; il datore di lavoro ha offerto infruttuosamente una mansioni inferiore che, però, il lavoratore ha rifiutato senza ragione. Il licenziamento è stato così dichiarato definitivamente legittimo.