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Il senso etico della mediazione

 La formazione del mediatore. Comprendere le ragioni dei conflitti per trovare le soluzioni,

di Maria Martello

(UTET Giuridica)

E’ appena stato pubblicato un libro che tratta della mediazione in termini inediti e profondi: non già un manuale di tecniche e procedure, bensì una appassionata riflessione sui significati e le conseguenze del conflitto nella vita delle persone.

Si tratta de La formazione del mediatore. Comprendere le ragioni dei conflitti per trovare le soluzioni, di Maria Martello, nella collana Un altro modo, cultura della mediazione, (UTET Giuridica) diretta da Paola Lucarelli.

L’Autrice muove dal presupposto che le opportunità offerte dalle cosiddette A.D.R., alternative dispute resolution non si esauriscono sui piani giuridico ed economico: se così fosse sarebbero destinate a rimanere in ombra realtà che rifuggono dalle spiegazioni razionali.

Le vere opportunità sono quelle che afferiscono gli interventi sulla dimensione profonda ed emotiva dei comportamenti delle parti in lite, caratterizzando la dimensione nella quale opera il mediatore e conferendo alle modalità di composizione negoziata dei conflitti tratti profondi ed innovativi.

La composizione, totale e definitiva, dei contrasti è resa possibile grazie a questo approccio, volto a trasformare circostanze negative, purtroppo in agguato – prima o poi – nella vita di tutti, in eventi dei quali proficuamente cogliere ogni recondito risvolto.

Si tratta della preziosa possibilità di indagare a fondo il proprio modo di comportarsi, nonché la natura e le ragioni dell’altro –la ‘controparte’–.

La mediazione consente di vivere un’esperienza preziosa per imparare a dialogare accettando di confrontarsi direttamente e coraggiosamente con le diversità e le pulsioni più elementari, quali la voglia di supremazia sull’altro e di contrapposizione, anche con il ricorso a scorrette, se pur ‘legittime’ difese che incoronano i vincitori, ma lasciano dentro –e dietro, magari per sempre– quale amara compagna di vita la consapevolezza di aver sviluppato e acuito modalità proprie dell’homo omini lupus.

Questa visione della mediazione può apparire utopica, nell’accezione di nù-topos, vale a dire che non ha ancora ‘luogo’, uno sprone, quindi, a tendere al meglio, se si è convinti che il superamento delle singole liti rechi con sé un’opera di pacificazione sociale e, contestualmente, una riduzione del carico di lavoro dei tribunali.

L’Autrice elabora un originale modello, da lei definito filosofico-umanistico, conferendo alla mediazione l’importanza che le è propria, specie ora che la l. 9 agosto 2013, n. 98 rilancia le possibilità di farla finalmente decollare.

L’Autrice delinea, quindi, i tratti del modello filosofico-umanistico, proposta da considerare per il suo coraggio in questo momento storico, particolare sia per quanto riguarda lo stato della mediazione, sia in generale per la natura dei rapporti sociali: dischiude, infatti, prospettive che creano speranza in un futuro possibile.

E’ necessario riflettere su ciò che si agita nella persona che entra in lite con un’altra, indipendentemente dall’oggetto del contendere e dalla definizione dell’ambito nel quale il conflitto si esprime, familiare, aziendale, sociale, civile, penale, commerciale, ed anche con la stessa pubblica amministrazione.

Solo così potrà investirsi proficuamente, affinché questa innovazione e la sua obbligatorietà prima di adire il giudice, siano percepite non come un’imposizione, bensì come una opportunità di valore.

Perché ciò avvenga il primo passo deve essere l’adeguata formazione del mediatore, affinché possa offrirsi un servizio di mediazione di qualità ora che si presentano le condizioni per operare in modo incisivo; il secondo, invece, la diffusione della consapevolezza nel cittadino che vi sono modalità in grado di andare oltre le forme che la società ha, sino ad ora, seguito per regolare i conflitti, ed aver fiducia nelle strade idonee a dare risposte che vadano oltre il sistema giudiziario.

Ciò presuppone la revisione del concetto stesso di conflitto che, di per sé, non è poi così malefico, ‘terribile’, come lo abbiamo sempre percepito e vissuto: se diventiamo più ‘evoluti’ nel modo di viverlo, esso può, anche divenire occasione di crescita: è indispensabile, però, la consapevolezza che dai conflitti si può uscire, avendo compreso come, con la stessa forza dedicata a generarli, si possono trovare condizioni soddisfacenti per superarli.

È in gioco la stessa possibilità dell’individuo di assumere interamente la responsabilità del proprio operato, correggendolo ed indirizzandolo proficuamente.

L’Autrice sottolinea come all’essere umano sia connaturata la potenzialità di saper guardare sempre innanzi a sé, collocandosi su posizioni ed interessi ‘altri’, su pensieri ‘nuovi’, tali da smorzare le dinamiche distruttive in atto e disvelarne l’incompatibilità rispetto alle opportunità future.

All’essere umano è dato sempre di pensare ad un futuro possibile, ad un cambiamento.

Ed anche quando vuole competere con l’altro può farlo su piani diversi, senza dover necessariamente confliggere o abdicare, delegando ad altri la ricerca delle modalità per superare con soddisfazione il contrasto.

Cosa è –si chiede l’Autrice- la mediazione se non un modo per imparare progressivamente a vivere di confronto e non di scontro?

Certamente non deve intendersi quale modalità per contenere il conflitto, bensì per trasformarlo.

Non per dare, salomonicamente, un po’ di torto e un po’ di ragione a ciascuno dei contendenti, ma per svelare quelle ragioni -non sempre note agli stessi protagonisti del conflitto- quelle che scatenano le liti, onde portarle alla luce, scandagliarle e ‘disinnescarle’.

Mediare un conflitto non significa solamente cercare un accordo tra le parti, certo anche questo, ma consente alle stesse parti in lite di scoprire le ragioni profonde dei propri atti e, partendo da queste, liberarsi dalle dinamiche distruttive che spingono ad aggredire l’altro nuocendo a sé stessi.

Comprendere le motivazioni alla base del conflitto diminuisce il senso di colpa, inaridisce il terreno sul quale si sviluppa il risentimento, fa svanire il bisogno di consumare forme di vendetta nei confronti del mondo facendo patire ad altri il proprio disagio.

Con la mediazione le parti trovano un accordo che soddisfa entrambe e rimuovono i focolai di nuove azioni di lotta. Ed, ancor più, esse sono libere di progettare modalità diverse per stare in relazione, liberandosi dai vincoli dei comportamenti precedenti ed allontanarsi progressivamente dai ‘vecchi’ schemi di comportamento, separandosi dal passato, voltandogli le spalle.

In definitiva, mutar mente per divenire capaci di non confliggere danneggiandosi reciprocamente, arrivando a comprendere come attivare relazioni proficue e costruttive.

Mediare significa comprendere le ragioni delle incomprensioni, scoprire vie e, soprattutto, atteggiamenti mentali idonei a superarle.

Ad avviso dell’Autrice, è stimolante la consapevolezza che, mentre ci preoccupiamo di comprendere ed utilizzare le potenzialità della mediazione, stiamo, forse, ponendo le basi di una convivenza civile ove la diversità si coniughi con l’esercizio costante del diritto alla propria unicità ed al rispetto di quella dell’altro.

Una strada per risolvere non solo i macroconflitti, ma altresì le piccole incomprensioni quotidiane, in ambito privato e lavorativo, con uno stile più etico e maturo cui improntare lo scambio relazionale, personale, sociale, manageriale.

Per l’Autrice rimane in secondo piano dissertare sui profili professionali più consoni ad occuparsi di mediazione, ed anche discutere se questa debba precedere le vie giudiziarie o con esse possa intrecciarsi, se debba rappresentare un’opportunità per la quale optare liberamente o se, viceversa, essa possa, almeno in taluni casi, rappresentare un obbligo; non considera prioritario affrontare, in questo momento, neppure i temi delle modalità organizzative e delle tariffe: tutte questioni, serie ma non prioritarie.

Ritiene l’Autrice che i dibattito non abbiano ragion d’essere se prima non si precisi il senso e si radichi il consenso sulla mediazione, nella consapevolezza che di vera innovazione si tratta, e si abbia quindi l’attenzione di dedicarle il tempo necessario a comprenderla, scongiurando i pericoli alimentati dalla diffusa convinzione che tutti credono di conoscerla, sovente assimilandola a forme conciliative in passato sperimentate, ma spesso con deludenti esiti, come in ambito giuslavoristico.

Oggi sembrano radicarsi soltanto avversioni corporative, idee personali e preconcetti: all’Autrice, invece, preme approfondire i tratti necessari alla formazione della mentalità del mediatore, definire il pensiero filosofico di riferimento, la forza sulla quale deve poggiare la possibilità di far evolvere gli altri dal conflitto che li contrappone, le forme mentali che generano lo scontro e lo rendono non più gestibile.

Si tratta di una promozione culturale che pone le basi di una scelta consapevole volta a mediare, anziché configgere con l’altro.

Purtroppo un pensiero troppo debole ha caratterizzato il recente dibattito sulla mediazione, alla quale è stata rivolta attenzione con finalità prettamente utilitaristiche: la deflazione del contenzioso giudiziario.

L’opposizione è stata, invece, in gran parte di segno corporativo: in questa prospettiva, la mediazione è stata presentata quale un inutile, ulteriore, balzello per il cittadino, talvolta – innegabilmente – in balia di organismi di mediazione improvvisati ed improvvidamente accreditati dal ministero della giustizia.

Dovranno trascorrere tempi biblici prima che la diffusione del ricorso alla mediazione sia tale da porre a rischio il ruolo dell’avvocato quale esclusivo tramite fra i litiganti e la giustizia: in ogni caso, la mediazione reclama avvocati di mentalità assai distante da quella capace –in buona fede o meno– di operare solo con gli strumenti giudiziari.

Ciò tocca, con evidenza, il problema delle competenze nel campo della composizione negoziata dei conflitti, anche per indirizzare proficuamente la parte assistita, aiutandola a comprendere le logiche non conflittuali alla base della mediazione: non si tratta, tuttavia, di doti innate, ma di abilità che derivano dall’approfondimento teorico –e dalla specifica esperienza pratica– resi possibile da un adeguato percorso formativo.

Su questo l’Autrice è assai netta: come non si improvvisa un professionista, neppure si improvvisa un mediatore in grado di muoversi a proprio agio nelle peculiari dinamiche di un conflitto.

I professionisti, avvocati, commercialisti, consulenti di diversa estrazione, devono essere convinti dell’opportunità di consigliare il cliente a partecipare attivamente alla mediazione, anche in assenza di qualsivoglia obbligo: purtroppo, però, la disciplina della mediazione extragiudiziale adottata con il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 coglie impreparata la prevalente parte dei professionisti, agli occhi dei quali è vista o con la curiosa diffidenza con la quale si guarda un nuovo orpello procedurale o, peggio, con la – neppure tanto – nascosta speranza che si tratti soltanto di un ballons d’essai, destinato a far discutere lo spazio di un mattino, per essere, poi, abbandonato all’oblio.

Eppure dovremmo sapere quanta parte hanno nei Paesi industrializzati i processi di mediazione nella composizione delle liti in ambito contrattuale ed extracontrattuale e, ciò che più conta, in assenza di qualsivoglia obbligo a farvi ricorso.

Inoltre, lungi dalla logica che la mediazione debba nascere dalle carenze dell’amministrazione della giustizia, l’Autrice è ben certa che la prima non possa radicarsi senza che l’altra sia in grado di assolvere al ruolo che le compete in un Paese civile.

Il ricorso alla mediazione deve, quindi, consolidarsi non in alternativa, bensì in complementarietà rispetto all’amministrazione giudiziaria, nella prospettiva di maggiore efficienza del ‘sistema giustizia’ nel suo complesso.

Gennaio 2014                                                                            Cesare Vaccà

 

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