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Obbligatorietà dell’azione penale

“[…] il principio di obbligatorietà dell’azione penale, espresso dall’art. 112 Cost., non esclude che l’ordinamento possa subordinare l’esercizio dell’azione a specifiche condizioni […]. Affinché l’art. 112 Cost. non sia compromesso, tuttavia, simili canoni debbono risultare intrinsecamente razionali e tali da non produrre disparità di trattamento fra situazioni analoghe: e ciò, alla luce dello stesso fondamento dell’affermazione costituzionale dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, come elemento che concorre a garantire – oltre all’indipendenza del pubblico ministero nello svolgimento della propria funzione – anche e soprattutto l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale […]. La norma [i.e. l’art. 405, comma 1-bis, c.p.p.] altera la logica dell’istituto dell’archiviazione, che per ratio storica e per il modo in cui è disciplinato, si propone come uno strumento di controllo volto a verificare, in funzione di garanzia dell’osservanza del precetto dell’art. 112 Cost., che l’azione penale non venga indebitamente omessa […]: laddove, per contro, nella prospettiva offerta dalla norma stessa, detto istituto assumerebbe l’opposto obiettivo di impedire che l’azione penale venga inopportunamente esercitata, anticipando, in pratica la funzione di “filtro” che dovrebbe essere propria dell’udienza preliminare”. 
Sono forse questi due dei passaggi più significativi della sentenza n. 121/2009 della Corte Costituzionale che inducono a riflettere nuovamente sulla portata dell’art. 112 Cost. ed in particolare sul rapporto di connessione tra principio di obbligatorietà dell’azione penale ed indipendenza del pubblico ministero. 
Se sul versante esterno quest’ultima è certamente garantita dall’art. 104 Cost. (NOTA 1), su quello interno, invece, com’è ben noto, la dottrina continua in buona sostanza a dividersi a seconda che si valorizzi il disposto dell’art. 107, 4° c., Cost. (NOTA 2), e dunque il rinvio al legislatore ordinario in sede di legge sull’ordinamento giudiziario per la determinazione delle garanzie spettanti al pubblico ministero, in parallelo con l’art. 101, 2° c., Cost., o quello dell’art. 112 Cost., appunto, letto unitamente all’art. 107, 3° c., Cost (NOTA 3). 
La pronuncia in commento trae origine dal giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 405, comma 1-bis, c.p.p. – aggiunto dall’art. 3 della L. n. 46/2006 in materia di modifiche al codice di procedura penale e inappellabilità delle sentenze di proscioglimento (c.d. “legge Pecorella”) – in riferimento agli artt. 3, 111, 2° c., e 112 Cost., in forza del quale “il pubblico ministero, al termine delle indagini, formula richiesta di archiviazione quando la Corte di cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell’articolo 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini”. 
Più precisamente, nella fattispecie il pubblico ministero titolare delle indagini, nell’ambito di un più ampio procedimento penale dal quale era derivato, per separazione, quello a quo avanti il G.i.p. di Forlì, a seguito del respingimento da parte della Suprema Corte delle richieste di applicazione di misure cautelari, proprio in applicazione della predetta norma aveva formulato richiesta di archiviazione, rappresentando tuttavia che in sua assenza avrebbe chiesto il rinvio a giudizio degli indagati. 
La Corte Costituzionale, oltre a sottolineare l’irragionevolezza dell’art. 405, comma 1-bis, c.p.p. sotto un triplice ordine di profili (NOTA 4), mette soprattutto in luce come la disposizione censurata introduca “un vincolo legale del tutto innovativo alle determinazioni del pubblico ministero in punto di esercizio dell’azione penale”, ricordando in particolare come lo scopo della norma, secondo i lavori preparatori (NOTA5), sarebbe di evitare, contrastando una prassi in assunto diffusa, che il pubblico ministero, pure in assenza di sopravvenienze investigative, eserciti “caparbiamente” l’azione penale in relazione a prospettazioni accusatorie la cui inconsistenza sarebbe già stata acclarata dalla Corte di Cassazione in occasione dello scrutinio di iniziative cautelari. 
Riesce per vero arduo comprendere quale sia l’esatto significato di tale espressione impiegata dal legislatore al fine di giustificare l’introduzione della nuova disposizione: al di là di una evidente carenza di argomentazioni giuridiche a fondamento della tesi riformatrice (NOTA 6), ciò che più sorprende è l’equivoco in cui sempre il legislatore pare cadere. 
Si vorrebbe, in definitiva, scongiurare il pericolo di un esercizio caparbio dell’azione penale. Ma l’azione penale, nel nostro ordinamento, si esplica attraverso la richiesta di rinvio a giudizio o, nel caso in cui la notizia di reato sia infondata, mediante la richiesta di archiviazione, fermo restando – e pare affatto superfluo rammentarlo – che su entrambe le richieste si pronuncia comunque un magistrato giudicante. 
Se, da un lato, più di un dubbio sembra manifestarsi nel caso in cui si dovesse interpretare l’intervento legislativo come diretto a scongiurare il pericolo che il pubblico ministero “insistentemente” avanzi richieste di archiviazione, dall’altro, si desume allora, con più probabilità, che il vero obiettivo della riforma sia quello di evitare che il pubblico ministero accusi “caparbiamente”. 
Posta in questi termini la questione, non può, però, non rilevarsi una sorta di ulteriore contraddizione negli intendimenti del legislatore, se si pensa ai recenti propositi di riforma del pubblico ministero in materia di separazione delle carriere: si temerebbe, cioè, l’accusa persecutoria e a ciò si vorrebbe pur tuttavia rimediare attraverso una riconfigurazione della posizione ordinamentale del pubblico ministero che faccia dello stesso un “avvocato dell’accusa” (NOTA 7). 
Sennonché esercitare l’azione penale non corrisponde all’esercizio di una potestà squisitamente accusatoria – per la quale, sì, non poche sarebbero le preoccupazioni di un esercizio caparbio –, e ciò proprio in quanto l’art. 112 Cost., come ricorda la Corte, ne predica il carattere dell’obbligatorietà – che a sua volta è cosa ben distinta dalla caparbietà. 
Ecco perché paiono assai significativi i richiamati passaggi della sentenza n. 121/2009, la quale, è stato osservato (NOTA 8), si inserisce in una linea di continuità con i precedenti dell’organo di giustizia costituzionale volti ad una più accentuata valorizzazione del collegamento tra il principio di obbligatorietà dell’azione penale e il principio cardine dell’ordinamento costituzionale, quello dell’uguaglianza, e altresì sembra sottolineare come il primo rivesta un ruolo centrale e imprescindibile all’interno del più generale sistema costituzionale di tutela giurisdizionale dei diritti (NOTA 9). 
Già nella sent. n. 111/1993 (NOTA 10), indicata allora dalla dottrina processualpenalistica come protagonista della “rottura dell’equilibrio del rito accusatorio” (NOTA 11), la Corte rilevava, d’altro canto, che “la stessa caratterizzazione del processo penale italiano come “processo di parti”, nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano, non può comunque non considerare che il pubblico ministero è un magistrato indipendente appartenente all’ordine giudiziario che “non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente all’osservanza della legge” […], cui è perciò demandato anche il compito di svolgere gli “accorgimenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini” […]”. 
Se già tale enunciato potrebbe rappresentare un’autorevole confutazione a quanti sostengono che il pubblico ministero è puramente parte, parziale, del processo (NOTA 12) – con la conseguenza che qualificarlo “organo di giustizia” (NOTA 13) sarebbe stilisticamente un “ossimoro” (NOTA 14) – ciò che viene in evidenza nella giurisprudenza costituzionale è proprio la “salvaguardia del principio di obbligatorietà dell’azione penale” (NOTA 15), a prescindere dal modello processuale adottato dal legislatore e con tutti i riflessi ch’essa comporta sul piano delle garanzie del magistrato requirente. 
Ed è significativo, sotto questo profilo, che la dottrina abbia parlato di un esercizio dell’azione penale sulla base di “considerazioni di giusto equilibrio di valori formulate in modo del tutto indipendente” (NOTA 16); e anche chi ha dubitato di una garanzia di indipendenza interna del magistrato requirente pari perfettamente a quella del giudice, ha nondimeno individuato il nucleo essenziale del principio di obbligatorietà dell’azione penale “nella esclusiva soggezione alla legge di chi è chiamato ad esercitarla, e si risolve in un aspetto del principio di legalità, assumendo essenziale rilievo sul piano della suddivisione delle competenze tra magistratura ed altri poteri dello Stato” (NOTA 17). 
“Costituzione dei poteri” e “Costituzione dei diritti”, dunque, le cui connessioni affiorano sin dall’incipit del Titolo IV della Carta Costituzionale – laddove la giustizia è amministrata in nome del popolo (NOTA 18) – e trovano concretezza nella devoluzione ad un ordine magistratuale autonomo e indipendente di quella funzione giurisdizionale di cui all’art. 102 Cost. in cui “deve intendersi compresa non solo l’attività decisoria, che è peculiare e propria del giudice, ma anche l’attività di esercizio dell’azione penale, che con la prima si coordina in un rapporto di compenetrazione organica a fine di giustizia e che l’art. 112 della Costituzione, appunto, attribuisce al pubblico ministero” (NOTA 19). 
Ma tale coordinamento è dato anche, per riprendere, conclusivamente, la sentenza n. 121/2009 in commento, dalla “logica dell’istituto dell’archiviazione”, che è pur sempre strumento di ricerca della verità e di garanzia affinché l’azione penale non sia indebitamente omessa. 
Ecco come il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che presuppone quale condizione di attuazione l’indipendenza del pubblico ministero, costituisca, per così dire, una species di quel più generale principio di indipendenza e autonomia sancito nell’art. 104 Cost. che lega la magistratura intera all’esercizio della funzione giurisdizionale (NOTA 20), e miri, in ultima analisi, a garantire l’interesse della collettività all’indipendente esercizio della giurisdizione (NOTA 21) – valore costituzionale in sé – legandosi l’indipendenza del giudice (che dispone) e quella del pubblico ministero (che al primo si rivolge e richiede) l’una con l’altra (NOTA 22). 
Avv. Paolo Gallo 
Dottore di Ricerca in Diritto Costituzionale 

NOTE BIBLIOGRAFICHE

1. Nonché dall’art. 106., 1° c., Cost., che prevede quale principio generale per la nomine dei magistrati quello del concorso.
2. Cfr. per tutti N. ZANON, Pubblico ministero e Costituzione, Padova, 1996, pp. 3 ss. La posizione dell’Autore è riproposta in N. ZANON, F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2006, pp. 127 ss. (nonché sempre nella seconda edizione de Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2008).
3. In questo senso già autorevolmente G. NEPPI MODONA, Art. 112 e 107, 4° c., in AA. VV., Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna-Roma, 1987, pp. 56 ss. Per una efficace sintesi delle differenti impostazioni cfr. anche F. BIONDI, Art. 107, in S. Bartole, R. Bin, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008, p. 950, secondo la quale per chi valorizza il dettato dell’art. 112 Cost. non vi sarebbero spazi per la previsione di rapporti gerarchici all’interno dell’ufficio di Procura, mentre per chi ritiene centrale il dettato dell’art. 107, 4° c., Cost., il legislatore potrebbe scegliere di organizzare, anche gerarchicamente, i rapporti tra i componenti dei singoli uffici, qualora ciò fosse necessario per garantire il principio di buon andamento dell’amministrazione giudiziaria. “Ovviamente”, ritiene l’Autore, la “correttezza” dell’una o dell’altra ricostruzione dipende dal significato che si attribuisce all’art. 112 Cost. (e, in particolare, se tale disposizione possa essere, o meno, totalmente equiparata all’art. 101, co. 2, Cost.), dal soggetto titolare delle garanzie costituzionali (singolo p.m. o ufficio di procura), e a quale fase processuale si ritiene applicabile l’art. 112 Cost.”.
4. Ovvero la diversità tra le regole di giudizio che presiedono alla cognizione cautelare e quelle che legittimano l’esercizio dell’azione penale; la differenza esistente tra la valutazione delle prove in sede di giudizio de libertate e giudizio dibattimentale, cui si ricollegano altresì le caratteristiche tipiche del giudizio di legittimità, strutturato come controllo sulla motivazione del provvedimento impugnato.
5. Segnatamente la proposta di legge n. 5301, i cui contenuti sono stati trasfusi nell’emendamento che ha inserito la disposizione censurata nella legge n. 46/2006.
6. Sempre nella proposta di legge n. 5301, presentata il 28 settembre 2004 alla Camera dei Deputati, si legge inoltre: “la presente proposta di legge intende armonizzare le pronunce del giudice di legittimità con le successive – ancorché autonome – determinazioni dell’organo d’accusa introducendo una regola generale in grado di evitare epiloghi della indagine, spesso particolarmente bizzarri e staticamente attestati acriticamente su ipotesi di nessuna consistenza indiziaria”.
7. Di “avvocati dell’accusa” ha parlato più volte il Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi sin dagli inizi del 2009 (cfr. le dichiarazioni rilasciate in la Repubblica del 3 febbraio 2009, p. 12: “Berlusconi: ora separiamo pm e giudici”), che propone di separare gli ordini e trasformare così il pubblico ministero in un avvocato, seppur dell’accusa, al pari degli avvocati della difesa. Ma la questione, non nuova peraltro, è stata già in passato affrontata: si vedano, ad esempio, le osservazioni di V. GREVI, Pubblico ministero e azione penale: riforme costituzionali o per legge ordinaria?, in Dir. pen. proc., 1997, fasc. 41, p. 494, che nella “dimensione dell’avvocato dell’accusa” intravede il “rischio [per il pubblico ministero] non teorico di un progressivo assorbimento, e quindi di un appiattimento anche psicologico, nella sfera operativa della polizia giudiziaria”.
8. S. PANIZZA, Fondamento e attualità del principio di obbligatorietà per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale, atti del Seminario interdisciplinare sul tema “Problemi della giustizia in Italia”, Roma, 8 giugno 2009, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, p. 8.
9. Cfr., sotto questo profilo, anche la successiva sent. n. 173/2009, in cui emerge il continuo riferimento all’effettivo esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero.
10. In cui la Corte Costituzionale, peraltro, premette, “sul piano metodologico, che la considerazione dell’ordinamento processual-penale italiano va condotta, a prescindere da astratte modellistiche, sulla base del tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non può che derivare da un’attenta lettura dei principi e criteri direttivi enunciati nella legge delega e dei principi costituzionali di cui questa […] richiede l’attuazione. Non va, cioè, dimenticato che il sistema processuale delineato nella legge delega e poi concretamente attuato nel codice è tutt’affatto originale, dato che tende bensì (art. 2, primo comma) ad attuare “i caratteri del sistema accusatorio”, ma “secondo i principi ed i criteri” specificati nelle direttive che seguono […]; e che, poiché la stessa norma detta ancor prima l’obbligo di “attuare i principi della Costituzione”, un’adeguata considerazione dell’ordinamento effettivamente vigente non può prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte si è trovata a dover apportare”.
11. Cfr. E. AMODIO, I rapporti tra pubblico ministero e giudice delle indagini preliminari nel nuovo processo penale, in AA. VV., Il pubblico ministero oggi, Milano, 1994, p. 211.
12. In questo senso, D. SIRACUSANO, Il ruolo del pubblico ministero nel nuovo processo penale, in Il pubblico ministero oggi, cit., pp. 39-40: “il pubblico ministero è parte perché domanda un’attuazione di legge nei confronti di un’altra parte: l’imputato. […] La domanda del pubblico ministero è, ormai, negli inequivocabili termini dell’accusa. Potremmo dire che il passaggio dal vecchio al nuovo sistema è segnato dalla trasformazione dei connotati dell’azione. Che non è più un’azione in senso stretto, che si appaga del fatto di instaurare un rapporto con il giudice, ma è un’azione in senso concreto, dai contenuti specifici, e con una pretesa ben orientata”.
13. Sulla qualificazione del pubblico ministero quale organo di giustizia si vedano, per tutti, le riflessioni di M. CHIAVARIO, Il pubblico ministero organo di giustizia?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, pp. 714 ss. Deve essere sottoposta a critica, secondo N. ZANON, F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, ed 2006 cit., pp. 126 e 132 ss., “perché fuorviante e non più adatta a rendere conto della distinzione fra p.m.-parte e giudice terzo”, l’idea del pubblico ministero organo di giustizia nel processo penale. La tesi del pubblico ministero organo di giustizia o parte imparziale condurrebbe ad alterare irrimediabilmente la parità del contraddittorio e stabilirebbe un’indebita commistione tra pubblico ministero – considerato come una sorta di para-giudice – e magistrato giudicante.
14. Sostiene al riguardo, per vero non senza una qualche curiosità, M. TRAPANI, Dal pubblico ministero-“giudice” al pubblico ministero organo amministrativo di giustizia?, in AA. VV., Il Consiglio Superiore della Magistratura. Aspetti costituzionali e prospettive di riforma (a cura di S. Mazzamuto), Torino, 2001, p. 411, che “un ampio settore della dottrina amministrativistica definisce, in generale, la pubblica amministrazione come “parte imparziale”, utilizzando significativamente la identica espressione – stilisticamente un ossimoro – tradizionalmente usata proprio per designare il P.M. quale organo di “giustizia”. Con ciò confermando inoltre, per diversa via, come organo di “giustizia” e quindi per definizione “imparziale” possa essere anche un organo amministrativo”.
15. Come si legge sempre al punto 6 delle considerazioni in diritto della sent. n. 111/1993.
16. L’espressione è di G. SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, p. 107.
17. Così V. ZAGREBELSKY, Indipendenza del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, in AA. VV., Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma (a cura di G. Conso), Bologna, 1979, p. 6. Pare utile rammentare che nella versione originale dell’art. 119 prog. Cost., nel testo licenziato nel giugno 1997 dalla Commissione bicamerale presieduta dall’on. D’Alema, la condizione di soggezione soltanto alla legge era espressamente attribuita anche ai pubblici ministeri.
18. Sul punto cfr. C. SALAZAR, L’organizzazione interna delle Procure e la separazione delle carriere, atti del Seminario interdisciplinare sul tema “Problemi della giustizia in Italia”, Roma, 8 giugno 2009, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, p. 4, che richiama a sua volta G. SILVESTRI, Lo Stato senza principe. La sovranità di valori nelle democrazie pluraliste, Torino, 2005, e ora Id., Dal potere ai principi. Libertà e uguaglianza nel costituzionalismo moderno, Roma-Bari, 2009, pp. 3 ss.
19. Così Corte Costituzionale, sent. n. 96/1975. Cfr. V. GREVI, Pubblico ministero e azione penale: riforme costituzionali o per legge ordinaria?, cit., p. 495, quando ritiene che il principio di obbligatorietà assolva ad un “ruolo centrale all’interno del sistema”, citando, peraltro, la sent. n. 88/1991 della Corte Costituzionale in cui si legge: “Ciò che fondamentalmente si garantisce [con la previsione di cui all’art. 125 disp. att. c.p.p.] è l’obbligatorietà dell’azione penale”; e P. BORGNA, M. MADDALENA, Il giudice e i suoi limiti. Cittadini, magistrati e politica, Roma-Bari, 2003, p. 21, laddove, nel capitolo II, terzo paragrafo, significativamente intitolato “Evoluzione storica dell’indipendenza, la “liberazione” del pubblico ministero”, sostengono che “L’architrave di ogni discussione sulla collocazione istituzionale della magistratura poggia sul nesso inscindibile fra indipendenza, autonomia e obbligatorietà dell’azione penale”. Contra P. GUALTIERI, La separazione delle carriere. Brevi riflessioni, in Dir. pen. proc., 2004, fasc. 11, p. 1410, per il quale azione e giurisdizione sono elementi così diversi e distanti da non poter essere ricondotti ad unità.
20. Sotto questo aspetto, come riporta G. MONACO, Pubblico ministero ed obbligatorietà dell’azione penale, Milano, 2003, pp. 287-334 e 335, note nn. 152-153, ove compare la significativa espressione “pendant”, “non si può trascurare l’argomentazione utilizzata da parte della dottrina, oltre che dalla Corte [Costituzionale], che vede in tale principio [cioè l’obbligatorietà dell’azione penale] il corrispondente di quanto l’art. 101, comma 2, stabilisce per il giudice e nell’art. 112 Cost. la concretizzazione del principio di legalità sostanziale”. È forse utile osservare che già in epoca antecedente all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, e con le medesime argomentazioni talora avanzate negli odierni propositi di riforme, il Guardasigilli Rocco nella relazione al codice processuale del 1930 evocava, a sostegno dell’assetto autoritario del pubblico ministero voluto dal regime fascista, la necessità di restituire al pubblico ministero il suo genuino ruolo di parte del processo penale, sciogliendo “la commistione fra ruoli delle parti e ruoli propri del giudice” realizzata in capo al pubblico ministero dal legislatore liberale del 1913 (il richiamo è contenuto in M. SCAPARONE, voce Pubblico ministero (dir. proc. pen), in Enc. dir., Milano, 1988, vol. XXXVII, p. 1097).
21. Ha scritto G. SILVESTRI, Il P.M. quale era, qual è, quale dovrebbe essere, in Giur. cost., 1997, fasc. 2, p. 959, che “Il bilanciamento di giustizia e libertà richiede la misura massima di indipendenza presente nell’ordinamento, quella dei magistrati dell’ordine giudiziario”. Se il pubblico ministero fosse organo dell’accusa sin dalla semplice manifestazione della notizia di reato, si dovrebbe concludere per l’esistenza di un organo pubblico incaricato di accusare i cittadini, cui si contrappone (rimedio necessariamente insufficiente) una difesa incaricata di contrastarlo. Viceversa, la delicatezza dei momenti iniziali del procedimento, quando ancora non è stata esercitata l’azione penale, richiede una valutazione imparziale della fondatezza delle notitiae criminis non solo allo scopo di poter sostenere l’accusa in dibattimento, secondo la prescrizione del già citato art. 125 disp. att. c.p.p., “ma anche, e principalmente, per non trasformare il processo da strumento di tutela dei diritti dei cittadini in luogo istituzionale della loro lesione”. Interessanti spunti provengono anche dalla sent. 11 giugno 2003 della corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Lesnik v. Slovacchia, ove al punto 54 si afferma che “Public prosecutors are civil servants whose task it i sto contribute to the proper administration of justice. In this respect they form part of the sudicia machinery in the broader sense of this term”.
22. Cfr. E. BRUTI LIBERATI, Il dibattito sul pubblico ministero: le proposte di riforma costituzionale in una prospettiva comparatistica, in Questione giustizia, 1997, fasc. 1, pp. 136-137, il quale, commentando le proposte in Commissione bicamerale del ’97 degli onorevoli Berlusconi, Pera, La Loggia e Parenti relative all’esclusione dell’inamovibilità per i pubblici ministeri, ebbe a dire che differenziare tra giudici e pubblici ministeri significa tornare al modello precedente alla Costituzione, che non estendeva al pubblico ministero, soggetto all’esecutivo, la pur allora imperfetta garanzia di inamovibilità dei giudici. “Eppure si tratta non di privilegio dei magistrati, ma di garanzia dei giudicabili; ed infatti il principio è strettamente connesso a quello del giudice naturale e della precostituzione del giudice. È appena il caso di aggiungere che, anche sotto questo profilo, la garanzia è completa se abbraccia, oltre al giudicante, il pm”. Dello stesso avviso è G. RICCIO, Equivoci culturali e incertezze semantiche nella soluzione del problema italiano del pubblico ministero, in Il Consiglio Superiore della Magistratura. Aspetti costituzionali e prospettive di riforma, cit., p. 357, che ravvisa nell’unità dell’ordine giudiziario “una condizione essenziale di indipendenza e di autonomia e pone al riparo dai pericoli di una connessione – altrimenti difficilmente evitabile – tra le procure della Repubblica e le sedi di decisione (e di responsabilità) politica”.

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