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Per il mobbing aziendale occorre sistematicità prolungata dei comportamenti ostili

lo dice la corte di appello di Milano

Una lavoratrice agisce avanti il tribunale di Milano assumendo di aver subito delle malversazioni aziendali in conseguenza delle quali ha avuto danni morali, esistenziali  e patrimoniali.  A sostegno delle sue accuse  contro l'azienda ha affermato di "aver subito nel settembre 2004 un procedimento disciplinare conclusosi con la sanzione del biasimo scritto e nel dicembre 2006 un secondo procedimento disciplinare al termine del quale le era irrogata la sanzione della multa; di essere stata trasferita il 5 giugno 2008 dalla sede di Varedo a quella di Desio, pur avendo fatto richiesta di trasferimento a Bresso sin dal 1999, per avvicinamento al luogo di residenza; di  essere stata sanzionata ad aprile 2010 con quattro giorni di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, con l’addebito di essersi impossessata di una carta di fidelizzazione dimenticata da un cliente, scaricandone 9.000 punti per l’acquisito di ricariche telefoniche per € 90, ricevendo in tale occasione anche l’invito da parte del responsabile, della funzione Risorse Umane dell’azienda, a dimettersi, invito che non accoglieva; di essere poi stata trasferita al punto vendita di Bresso in data 31 maggio 2011, ricevendo da quel momento addebiti per gravi condotte diffamanti, in particolare la contestazione del 21 novembre 2011 per essere stata sorpresa da una collega il 14 novembre “ad armeggiare con la borsa della stessa” e quella relativa ad un episodio, avvenuto il 19 dicembre 2011, di sottrazione di alcuni articoli, pagati da clienti per complessivi € 27,81, poi rinvenuti nel sacchetto da lei prelevato a fine turno, contestazione quest’ ultima che determinava il suo licenziamento per giusta causa". 

Il tribunale ha rigettato la  domanda. La lavoratrice  ha fatto ricorso in appello.

La corte ha  confermato la sentenza con l'interessante motivazione che vi riportiamo.

"Osserva il collegio, prima di tutto, che, comparando la prospettazione attorea dei fatti che dovrebbero integrare la fattispecie invocata con la nozione di mobbing individuata dalla giurisprudenza, emerge sia la sporadicità dei fatti allegati, in numero di sei diluiti nell’arco di sette anni, sia la mancata individuazione dei soggetti responsabili di comportamenti vessatori specifici e rilevanti così che non sussistono quelle caratteristiche di sistematicità prolungata dei comportamenti ostili che, accanto all’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, al nesso eziologico tra la condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore ed alla prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio, sono richieste dai giudici di legittimità per potersi parlare di mobbing ed il cui onere probatorio grava a carico del lavoratore (cfr. ex plurimis : Cass. 3 marzo 2016 nr. 4222; Cass. 14 settembre 2015 nr.18039; Cass. 15 maggio 2015 n.10037; Cass. 19 settembre 2014 n.19782; Cass. 6 agosto 2014 nr.17698).  Non solo: alcun cenno è stato fatto nel ricorso introduttivo del giudizio al requisito della coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare pregiudizio al lavoratore, ovvero all’intento persecutorio (cfr.: Cass. 8 gennaio 2016 n.158), mentre del tutto generiche - se non addirittura inesistenti - risultano le allegazioni sul piano delle asserite conseguenze lesive che sarebbero derivate alla signora Borda dal comportamento datoriale, facendosi riferimento ad un non meglio precisato senso di depressione e disagio psicologico, la cui insorgenza non viene in alcun modo collocata temporalmente in relazione alle lamentate vessazioni.".Ssentenza n. 1152/2017. Presidente del collegio e giudice relatore dott.ssa Monica Vitali. 

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