26/10/2015
La questione, originata dalla cessazione del rapporto di lavoro fra una giornalista ed il giornale nazionale presso il quale lavorava, è stata rimessa all’esame del Tribunale, che in primo grado ha accertato la natura subordinata della prestazione, condannando l’azienda al pagamento delle differenze retributive ed alla reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro, in considerazione dell’illegittimità del licenziamento. La pronuncia è stata impugnata dal giornale la Corte d’Appello, accogliendo parzialmente la domanda di gravame, ha accertato la risoluzione del rapporto per mutuo consenso, respingendo ogni altra doglianza. Nel pervenire a tali conclusioni, il giudice d’appello ha osservato che le effettive modalità di svolgimento ed i contenuti della attività lavorativa espletata dalla giornalista deponevano nel senso della sussistenza di un vincolo di dipendenza fra le parti, correlato alla continuità della prestazione, alla quotidianità della presenza in redazione, alla responsabilità del servizio, alla sottoposizione della attività giornalistica al controllo da parte del capo servizio. Il quotidiano ha, quindi, adito la Suprema Corte, lamentando la non corretta valutazione da parte dei giudici tanto del rapporto di lavoro, da ricondurre ad una locatio operis, quanto dell’intervenuto riconoscimento della qualifica di redattore ordinario, con relativo trattamento economico e normativo.
In punto di diritto, in ordine al rilievo del nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto, si è osservato come sia principio risalente che la volontà negoziale non ha il potere di qualificare giuridicamente i rapporti posti in essere, trattandosi di compito riservato al giudice; nello specifico, il giudice d’appello, sulla premessa che il rapporto di lavoro giornalistico si caratterizza per il peculiare carattere intellettuale e creativo della prestazione, ha rimarcato come la natura subordinata del rapporto possa essere riconosciuta a quell'attività che per ampiezza di prestazioni ed intensità della collaborazione, comporti l'inserimento stabile del lavoratore nell'assetto organizzativo aziendale, costituendo aspetti qualificanti la continuità della prestazione e la responsabilità del servizio, non rilevando, in contrario, il notevole grado di autonomia con cui la prestazione viene svolta. La Corte d’Appello aveva ritenuto smentita la tesi di parte appellante relativa alla natura autonoma della collaborazione prestata dalla lavoratrice, essendo emerso con chiarezza un vincolo di dipendenza. Deve quindi affermarsi che la sentenza impugnata si colloca nel solco dell’orientamento dominante della Cassazione (vedi ex aliis, Cass. 2 aprile 2009 n. 8068) che, “in tema di attività giornalistica, siano configurabili gli estremi della subordinazione - tenuto conto del carattere creativo del lavoro - ove vi sia lo stabile inserimento della prestazione resa dal giornalista nell'organizzazione aziendale così da poter assicurare, quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo, la soddisfazione di un'esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche, con permanenza, nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, della disponibilità del lavoratore alle esigenze del datore di lavoro”. Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la natura subordinata della prestazione resa dalla giornalista.
Nella foto: dalla Biennale di Venezia 2015. Il padiglione del Vaticano
Il trasferimento
Il datore di lavoro può trasferire il lavoratore dal luogo di lavoro presso il quale ha prestato normalmente la sua attività lavorativa. Il trasferimento da un'unità produttiva all'altra, però, può essere adottato solo in presenza di "comprovate ragioni tecniche organizzative o produttive". Senza queste esigenze oggettive il trasferimento è illegittimo. Il lavoratore, avuta comunicazione del trasferimento, può chiedere che il datore di lavoro gli fornisca la motivazione del provvedimento. Il provvedimento di trasferimento, se contestato dal lavoratore, deve essere impugnato con immediatezza, entro 60 giorni dalla sua comunicazione. Nei successivi 180 giorni, poi, occorre depositare il ricorso avanti il giudice del lavoro. L'inosservanza di questi termini comporta la definitività del provvedimento. È opportuno che il lavoratore esegua momentaneamente l'ordine di trasferimento anche se lo dovesse ritenere illegittimo, al fine di impedire insubordinazioni o assenze ingiustificate dal lavoro.