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Il risarcimento del danno non consegue automaticamente alla dequalificazione professionale del lavoratore

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17/12/2019

La prova può essere data dal lavoratore anche con gli indizi purché siano univoci e concordanti

La corte di appello di Milano nel 2017 ha condannato laTrenitalia s.p.a. al risarcimento del danno da demansionamento subito da un lavoratore dipendente, liquidato in misura pari al 10% per ogni anno dell’ultima retribuzione globale di fatto, a decorrere dal 2009 nei limiti della prescrizione decennale, oltre accessori di legge.
La corte di appello ha  accertato l’esistenza di un danno non patrimoniale da demansionamento, in via presuntiva sulla base dei seguenti elementi: "la durata del demansionamento protrattosi per ben 13 anni (dal 1997 fino al 2010, anno del deposito del ricorso di primo grado), il tipo di professionalità specifica colpita (macchinista di treni), la conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, la circostanza che durante la protratta inattività l’appellante non ha partecipato a iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale, il tutto con conseguenti e indiscutibili effetti negativi sia dal punto di vista occupazionale che relazionale".
Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società datrice di lavoro.
La cassazione respingendo il ricorsoaziendale contro la sentenza della corte di appello ha "precisato come dall’inadempimento datoriale non derivi automaticamente l’esistenza del danno, non potendosi quest’ultimo ravvisare immancabilmente a causa della potenzialità lesiva dell’alto illegittimo. È stata quindi più volte ribadita la distinzione tra "inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c., cioè tra il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 c.c. e quello della produzione del pregiudizio, nei differenti aspetti che lo stesso può assumere. Ciò proprio in ragione del fatto che dall’inadempimento datoriale possono derivare, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore (danno professionale in senso patrimoniale, nonché danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno non patrimoniale), che possono anche coesistere l’una con l’altra, con conseguente necessità di specifica allegazione e prova da parte di chi assume di essere stato danneggiato;
è costante l’affermazione per cui la prova del danno da demansionamento e dequalificazione professionale può essere data dal lavoratore anche ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione;
deve, tuttavia, rilevarsi come l’onere del lavoratore di specifica allegazione dei fatti che il giudice può valutare al fine di ritenere integrata la prova presuntiva, nella specie del danno non patrimoniale, risulti necessariamente alleggerito laddove, a causa dell’inadempimento datoriale, il dipendente sia stato lasciato in condizione di totale inattività, senza attribuzione di mansioni e assegnazione di compiti; specie ove tale condizione di inattività, in assoluto contrasto con l’art. 2103 c.c., si sia protratta, come nel caso in esame, per molto tempo;
 inoltre, risponde ai canoni di legittimità della prova presuntiva, come ampiamente delineati nella giurisprudenza di legittimità, desumere l’esistenza del danno non patrimoniale dal fatto noto e accertato del demansionamento ove quest’ultimo sia consistito nel lasciare nella totale inattività il dipendente divenuto inidoneo alle mansioni, senza coinvolgerlo in programmi di formazione e riqualificazione professionale, senza adibirlo a mansioni anche inferiori, senza metterlo in qualche modo in condizione di poter esercitare il proprio diritto-dovere di lavoratore; difatti, il danno sofferto dal lavoratore costituisce, in ipotesi di totale inattività, specie ove protratta per un lungo periodo, conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità;
al riguardo, si è rilevato come  il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 c.c., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa. A tal fine, il giudice deve tenere conto dell’insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio l’autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo, provvedere all’integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell’ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno". Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza n. 32982/19; depositata il 13 dicembre.
Tutti questi principi concorrono, per la cassazione, al rigetto del ricorso presentato dall'azienda.

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