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La tardività della contestazione di addebito, comporta il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Anche con la legge Fornero del 2012

Prima dell'entrata in vigore della legge Fornero del 2012, se il fatto di rilevanza disciplinare risultava contestato tardivamente, il lavoratore, pacificamente, aveva diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro. Dopo l'entrata in vigore della legge Fornero, che ha modificato l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, si è posto il problema giuridico ed interpretativo se quella tardività, nel nuovo assetto normativo, comportasse ancora il diritto ad avere la reintegrazione nel posto di lavoro e non la semplice indennità risarcitoria, senza la reintegrazione.

Il fatto della controversia.
Un quadro direttivo di una banca nel 2013 è stato licenziato in tronco; il lavoratore ha impugnato il licenziamento sia per la tardività della contestazione sia per la insussistenza dei fatti addebitati che risalivano al 2010.
Il tribunale, nella fase sommaria della procedura, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento per tardività della contestazione, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro. Il giudice dell'opposizione all'ordinanza di reintegrazione è stato di diverso orientamento e, in parziale riforma dell'ordinanza, dichiarato risolto il rapporto di lavoro, ha condannato la Banca al pagamento di un'indennità risarcitoria, ma senza la reintegrazione nel posto di lavoro, assumendo che la tardività della contestazione comportasse una "violazione procedurale" e non la violazione di una norma sostanziale rendendo, quindi, il fatto insussistente.
La corte di appello, alla quale si è rivolto il lavoratore, ha invece ritenuto che non si trattasse di una semplice violazione della procedura, bensì di "un "fatto negoziale" di natura abdicativa, che precludeva alla datrice di lavoro l’esercizio del potere di recesso, venuto meno per una sorta di rinuncia; conseguentemente, la corte ha ritenuto che si fosse in presenza di un fatto estintivo del diritto di recesso, comportante la nullità dell’atto di licenziamento, con permanenza del rapporto e con diritto alla riassunzione."
Adesso è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di Cassazione; la Corte di Cassazione, però, con la sentenza che commentiamo, dopo aver accolto la tesi argomentativa della corte di appello, ha ritenuto di rimettere la questione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ritenendo la questione di massima e di "particolare importanza, destinata a incidere su altre controversie già pendenti o che verosimilmente potrebbero essere instaurate nell'immediato futuro, in ordine alle quali è auspicabile si prevenga il formarsi di una molteplicità di orientamenti giurisprudenziali contrastanti". Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 10159/17; depositata il 21 aprile.
La sentenza della Corte di Cassazione, sentenza sulla terdività della contestazione di addebito  è di grande importanza giuridica. Per l'interesse che riveste la offriamo in lettura nella sua forma integrale.

Il potere disciplinare del datore di lavoro

  Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. La multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni. In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa. Articolo 7 dello statuto dei lavoratori

La contestazione non può essere ripetuta.

Si deve  escludere che il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, lo possa esercitare una seconda volta per quegli stessi fatti, in quanto ormai consumato: essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonché dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati per la globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati. Sentenza Cassazione del 30 gennaio 2018.  

Impugnazione della sanzione. Ferma restando la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi la costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell'ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio. Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il datore di lavoro adisce l'autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio. Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione. Art 7 dello Statuto dei lavoratori