05/04/2016
La Cassazione nel mese di marzo 2016 ha finalmente affermato il principio secondo il quale In materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione, pertanto, di ogni onere di allegazione a carico del lavoratore licenziato, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi cadenti sul datore di lavoro.
Il fatto controverso:
con sentenza la Corte d'appello di Trieste respingeva l'appello avverso la sentenza di primo grado, che aveva rigettato la domanda di illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo. La Corte territoriale riteneva provata l'effettiva ricorrenza del giustificato motivo oggettivo, sub specie di riorganizzazione aziendale con accorpamento della divisione diretta dal licenziato e per l'andamento economico e finanziario negativo; il tutto anche in assenza di specifica allegazione di possibile repechage del lavoratore.
La corte di cassazione ha accolto l’impugnazione del lavoratore. Riportiamo per intero il ragionamento della Corte suprema di cassazione che si pone in netto contrasto con altro e diverso orientamento della stessa Corte.
“Il collegio è ben consapevole di un consolidato indirizzo di questa Corte, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3 (accanto ad uno di chiara affermazione dell'onere datoriale della prova dell'impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell'attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito: Cass. 12 luglio 2012, n. 11775; 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 14 giugno 2005, n. 12769; Cass. 9 giugno 2004, n. 10916; Cass. 1 ottobre 1998, n. 9768; Cass. 26 ottobre 1993, n. 9369), secondo cui, se indubbiamente un tale onere competa al datore di lavoro, tuttavia esso conseguirebbe da un (diverso e propedeutico) onere, a carico dello stesso lavoratore che impugni il licenziamento, di allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro per la sua utile ricollocazione, in virtù di un preteso obbligo di collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage (Cass. 6 ottobre 2015, n. 19923; Cass. 3 marzo 2014, n. 4920; Cass. 8 novembre 2013 n. 25197;
Cass. 19 ottobre 2012, n. 18025; Cass. 26 aprile 2012, n. 6501; Cass. 8 febbraio 2011 n. 3040; Cass. 18 marzo 2010, n. 6559; Cass. 22 ottobre 2009, n. 22417; Cass. 19 febbraio 2008, n. 4068; Cass. 9 agosto 2003, n. 12037; Cass. 12 giugno 2002, n. 8396; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13134): in una sorta, per così dire, di cooperazione processuale.
Tuttavia, come chiaramente si evince dall'integrale lettura delle sentenze citate, un tale indirizzo imperniato su una netta (e inedita) divaricazione tra onere di allegazione (in capo al lavoratore) e di prova (in capo al datore di lavoro) è meramente tralaticio, fondandosi su una petizione di principio (secondo cui "il lavoratore, pur non avendo il relativo onere probatorio, che grava per intero sul datore di lavoro, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di repechage") assunta come postulato, in quanto affatto argomentata nel suo fondamento giuridico.
Per trovare una spiegazione, occorre risalire ad una lontana sentenza, che, premesso l'onere datoriale, in tema di licenziamento per giustificato motivo obiettivo secondo costante orientamento della medesima Corte, di provare l'impossibilità di una diversa utilizzazione, trattandosi di circostanza pur sempre ricollegabile alle generali "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa", ha offerto la seguente giustificazione: "Pur sussistendo... siffatto carico probatorio sul datore di lavoro, resta peraltro pur sempre a carico del lavoratore, ricorrente in giudizio per ottenere l'annullamento del licenziamento, l'onere di dedurre ed allegare, in osservanza delle prescrizioni sulla forma della domanda dettate dall'art. 414 c.p.c. (secondo cui la domanda deve contenere, tra l'altro, l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali (essa) si fonda": n. 3 cit. art. 414), le specifiche circostanze e ragioni costituenti i presupposti di tale azione. E pertanto - con riferimento al caso che qui interessa - è da ricondurre a tale onere, del lavoratore ricorrente, il dedurre e l'allegare circostanze di fatto e ragioni di diritto costituenti il fondamento della affermata illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo: e così la insussistenza di un giustificato motivo, ovvero l'inadeguatezza in tal senso del motivo addotto dal datore di lavoro, ed anche la possibilità, comunque, di una sua diversa utilizzazione nell'impresa con mansioni equivalenti... Sarà poi onere del convenuto datore di lavoro, in opposizione alle suddette deduzioni e allegazioni attinenti agli elementi essenziali dell'azione contro di lui proposta, fornire la prova ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 5 cit. (che in sostanza contiene una specificazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c., comma 2) dei fatti impeditivi dell'azionato diritto ad ottenere l'annullamento del licenziamento: e fornire quindi la prova della sussistenza delle ragioni produttive e organizzative aziendali di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3 cit. (ed in particolare, nel caso di specie, la prova della sostenuta riduzione dell'attività imprenditoriale per diminuzione degli appalti), nonchè la prova che non v'era comunque possibilità di una diversa e adeguata utilizzazione del dipendente. Ma ove una siffatta possibilità di diversa utilizzazione (che costituisce elemento di fatto certamente collegato, ma pur sempre differenziato e distinto rispetto alle vere e proprie ragioni di carattere organizzativo, produttivo e funzionale riferite alla attività aziendale dal citato art. 3) non sia stata neppure allegata dal ricorrente tra gli elementi posti a fondamento dell'azione e tra i presupposti della sua domanda, non v'è ragione logica per cui il convenuto debba chiedere di provare la insussistenza di una tale circostanza, in quanto appunto nemmeno prospettata dalla parte interessata a farla valere" (Cass. 23 ottobre 1998, n. 10559).
Appare evidente come i principi testualmente riportati (e che, si ribadisce, costituiscono la giustificazione del consolidato indirizzo qui confutato) non possano essere condivisi, e non solo perchè già in precedenza smentiti, in particolare da due sentenze, secondo cui:
"l'onere della prova della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe e quelle svolte in precedenza, pur dovendo essere mantenuto entro limiti di ragionevolezza sì che può considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze probatorie di natura presuntiva e indiziaria... non può tuttavia essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili invero, pur dovendosi tener conto della specificità dei vari settori dell'impresa, la superfluità del lavoro del dipendente licenziato deve essere valutata entro l'ambito dell'intera azienda e non già con riferimento al singolo posto ricoperto, nel senso che grava interamente sul datore di lavoro la dimostrazione della impossibilità di utilizzare il dipendente in altro settore della stessa azienda" (Cass. 7 luglio 1992 n. 8254); "La prova...
dell'impossibilità di un diverso impiego della lavoratrice licenziata nell'azienda, senza dequalificazione, gravava per intero anch'essa sul datore di lavoro e non poteva quindi trasferirsi neppure in parte sulla lavoratrice (pur se al solo fine dell'indicazione di posti di lavoro a lei assegnabili). Non si vede in realtà come sia esigibile un'indicazione del genere da parte del lavoratore licenziato, che è estraneo all'organizzazione aziendale, e l'indirizzo in tal senso di questa Corte... può dirsi costante" (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164).
Con la loro enunciazione si ritiene, in buona sostanza, che la possibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse (cd. repechage) sia elemento costitutivo della domanda di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e perciò nell'onere di allegazione del lavoratore medesimo, cui il datore di lavoro opponga il fatto impeditivo "dell'azionato diritto ad ottenere l'annullamento del licenziamento":
in esso inclusa la negazione della "possibilità di una diversa e adeguata utilizzazione del dipendente", purchè "allegata dal ricorrente tra gli elementi posti a fondamento dell'azione e tra i presupposti della sua domanda".
Ma in realtà non è così, perchè, se è indubbio che nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo la causa petendi sia data dall'inesistenza dei fatti giustificativi del potere spettante al datore di lavoro, gravando su quest'ultimo l'onere di provare la concreta sussistenza delle ragioni inerenti all'attività produttiva e l'impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, è pur vero che l'indicazione (pur "possibile" da parte del "lavoratore" che si sia fatto "parte diligente") di un posto di lavoro alternativo a lui assegnabile, o l'allegazione di circostanze idonee a comprovare l'insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, comporti l'inversione dell'onere della prova (Cass. 5 marzo 2015, n. 4460, con espresso richiamo sul punto di Cass. 7 luglio 1992, n. 8254, che in proposito, giova ribadire, ha testualmente affermato che: "l'onere della prova della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe e quelle svolte in precedenza... non può tuttavia essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili").
Ora, la L. n. 604 del 1966, art. 5 è assolutamente chiaro nel porre a carico del datore di lavoro "l'onere della prova della sussistenza... del giustificato motivo di licenziamento": ed in tale senso esso è interpretato in ordine al controllo giudiziale dell'effettiva sussistenza del motivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, addotto dal datore di lavoro, essendo invece insindacabile la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. (Cass. 14 maggio 2012, n. 7474; Cass. 11 luglio 2011, n. 15157).
Ed in esso rientra il requisito dell'impossibilità di repechage, quale criterio di integrazione delle ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, nella modulazione della loro diretta incidenza sulla posizione del singolo lavoratore licenziato, derogabile soltanto quando il motivo consista nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile (dovendo in tal caso il datore di lavoro pur sempre improntare l'individuazione del soggetto da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi anche il recesso di una di esse: Cass. 28 marzo 2011, n. 7046) ovvero in caso di licenziamento del dirigente d'azienda per esigenze di ristrutturazione aziendali (per incompatibilità del repechage con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro: Cass. 11 febbraio 2013, n. 3175).
Ed allora, la domanda del lavoratore è correttamente individuata, a norma dell'art. 414 c.p.c., nn. 3 e 4, da un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità e da una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo così come intimato dal datore di lavoro, cui incombe pertanto la prova, secondo la previsione della L. n. 604 del 1966, art. 5, della sua ricorrenza in tutti gli elementi costitutivi, in essi compresa l'impossibilità di repechage: senza alcun onere sostitutivo del lavoratore alla sua controparte datrice sul piano dell'allegazione, per farne conseguire un onere probatorio (offrendogli, per così dire, l'affermazione del fatto da provare).
Si tratterebbe di una divaricazione davvero singolare, in quanto inedita sul piano processuale, nel quale l'onere della prova è modulato in coerente corrispondenza con quello dell'allegazione, come inequivocabilmente stabilito dall'indicazione dei requisiti della domanda ("esposizione dei fatti... sui quali si fonda la domanda" e "indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi": art. 414 c.p.c., nn. 4 e 5, con previsione del tutto analoga a quella dell'art. 163 c.p.c., comma 3, nn. 4 e 5), in funzione di una corretta ripartizione dell'onere probatorio secondo la previsione dell'art. 2697 c.c., a norma del quale ciascuna delle parti deve provare i fatti a fondamento delle proprie domande o eccezioni, espressione del rispettivo onere di allegazione, nell'evidente indisgiungibilità dei due piani (Cass. s.u. 16 febbraio 2016, n. 2951: in riferimento ad allegazione e prova della titolarità della posizione giuridica vantata in giudizio; Cass. 15 ottobre 2014, n. 21847 e Cass. 19 agosto 2009, n. 18399: in riferimento all'onere di provare le proprie allegazioni soltanto ove non specificamente contestate da controparte).
La patrocinata ricostruzione sistematica della ripartizione dei rispettivi oneri di allegazione e di prova tra le parti nella fattispecie in esame trova piena conferma anche ove ricondotta ai principi in tema di responsabilità da inadempimento, di cui la normativa di carattere generale in materia di licenziamenti (come principalmente stabilita dalla L. n. 604 del 1966 e dalla L. n. 300 del 1970, art. 18) costituisce specificazione, essendo applicabile agli effetti del licenziamento, qualora non operi detta normativa, la disciplina civilistica dell'inadempimento (Cass. 22 luglio 2004, n. 13731).
Sicchè, in base a tali principi, il creditore attore (lavoratore impugnante il licenziamento come illegittimo) è onerato della (allegazione e) prova della fonte negoziale (o legale) del proprio diritto (rapporto di lavoro a tempo indeterminato) e dell'allegazione dell'inadempimento della controparte (illegittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo), mentre il debitore convenuto (datore di lavoro) è onerato della prova del fatto estintivo (legittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo nella ricorrenza dei suoi presupposti, tra i quali, come detto, anche l'impossibilità di repechage): in coerenza con i principi di persistenza del diritto (art. 2697 c.c.) e di riferibilità o vicinanza della prova (Cass. s.u. 30 ottobre 2001, n. 13533). E tale principio di riferibilità o vicinanza della prova, conforme all'esigenza di non rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto del creditore a reagire all'inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore, in quanto nella migliore disponibilità degli elementi per dimostrare le ragioni del proprio comportamento, ormai di consolidata applicazione (Cass. 29 gennaio 2016, n. 1665; Cass. 14 gennaio 2013, n. 2016; Cass. 2 settembre 2013, n. 20110; Cass. 17 aprile 2012, n. 6008; Cass. 6 giugno 2012, n. 9099), trova coerente riscontro anche nel caso di specie: per la maggiore vicinanza di allegazione e prova dell'impossibilità di repechage al datore di lavoro, non disponendo il lavoratore, al contrario del primo, della completezza di informazione delle condizioni dell'impresa, tanto più in una condizione di crisi, in cui esse mutano continuamente a misura della sua evoluzione e degli interventi imprenditoriali per rimediarvi o comunque indirizzarne gli sbocchi. Ciò che, d'altro canto, da tempo è stato ben presente a questa Corte, avendo in particolare essa osservato: "non si vede in realtà come sia esigibile un'indicazione del genere" (ossia dei posti assegnabili) "da parte del lavoratore licenziato, che è estraneo all'organizzazione aziendale" (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164, che ha anche sottolineato la costanza di un indirizzo in tal senso della Corte).
In via conclusiva, si comprende allora come la tralaticia affermazione di una sorta di cooperazione processuale del lavoratore, e più in generale di ogni parte, sul piano dell'allegazione in favore della controparte sia priva di alcun fondamento normativo;
soltanto sul piano sostanziale un tale obbligo di cooperazione è, infatti, previsto tra le parti, siccome tenute ad un comportamento di collaborazione, conforme ai principi di correttezza e di buona fede, a norma degli artt. 1175, 1206 e 1375 c.c., quale obbligazione collaterale alle principali (Cass. 6 febbraio 2008, n. 2800; Cass. 16 gennaio 1997, n. 387).
Dalle superiori argomentazioni, assorbenti l'esame del quarto (violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175 e 1375 c.c. e motivazione illogica, per mancata esatta valutazione della disponibilità manifestata allo svolgimento di mansioni anche inferiori) e del quinto motivo (violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, artt. 1175 e 1375 c.c. e motivazione contraddittoria, per omessa valutazione del proprio carico familiare nella valutazione della preferenza datoriale per la conservazione dell'incarico di direttore della divisione Geotecnica al dr. B.), discende coerente l'accoglimento dei due motivi congiuntamente scrutinati, con la cassazione della sentenza impugnata in relazione ad essi e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Trieste in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto:
"In materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente".
Cassazione civile, sez. lav., 22/03/2016, (ud. 17/02/2016, dep.22/03/2016), n. 5592
Nella Foto Pablo Picasso: Pesca nocturna en Antibes (Agosto 1939) Movement Cubism, Surrealism.
Comunicazione della cessazione del rapporto di lavoro agli enti amministrativi
Entro 5 giorni dalla data risoluzione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto ad informare il Centro per l’impiego competente della cessazione del rapporto di lavoro (art. 21, comma 1, Legge n. 264/1949).
La comunicazione di cessazione deve essere eseguita anche in presenza di un rapporto di lavoro a termine, allorché avvenga in data antecedente alla data di fine rapporto comunicata al momento della sua instaurazione, proroga o trasformazione. Va comunicata inoltre anche la risoluzione posticipata nel caso del contratto a tempo determinato che si prolunghi per prosecuzione di fatto.
L’omessa comunicazione è punita con una sanzione amministrativa da € 100 a € 500, per ciascun lavoratore interessato (art. 19, comma 3, D.lgs.276/2003).
Termini di decadenza per l'impugnazione del licenziamento
Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch' essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volonta' del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L'impugnazione e' inefficace se non e' seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. Legge 604/1966
Tentativo preventivo di conciliazione
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, qualora disposto da un datore di lavoro che occupi più di 15 addetti, deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e trasmessa per conoscenza al lavoratore. Nella comunicazione il datore di lavoro deve dichiarare l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo nonche' le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato. La Direzione territoriale del lavoro trasmette la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della richiesta: l'incontro si svolge dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione. La comunicazione contenente l'invito si considera validamente effettuata quando e' recapitata al domicilio del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o ad altro domicilio formalmente comunicato dal lavoratore al datore di lavoro, ovvero e' consegnata al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta. Le parti possono essere assistite dalle organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o conferiscono mandato oppure da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori, ovvero da un avvocato o un consulente del lavoro. La procedura si conclude entro venti giorni dal momento in cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione per l'incontro. La mancata presentazione di una o entrambe le parti al tentativo di conciliazione e' valutata dal giudice nel successivo ed eventuale contenzioso giudiziario. Legge 604/1966 art. 7.
Durante la prova si può licenziare anche verbalmente
Il licenziamento deve essere comunicato per iscritto e devono essere indicati i motivi. I lavoratori assunti in prova possono essere licenziati anche oralmente. Ma è consigliabile usare anche per essi la forma scritta con la motivazione del mancato superamento della prova. Legge 604/1966