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Niente controlli difensivi sul dirigente senza la prova dell’iniziale fondato sospetto sul suo illecito agire

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17/09/2023

Niente controlli difensivi sul dirigente senza la prova dell’iniziale fondato sospetto sul suo illecito agire

L’azienda licenzia un suo dirigente per giusta causa dopo avergli contestato “una condotta di insubordinazione e di violazione dei doveri di diligenza e fedeltà nonché dei generali principi di correttezza e buona fede per avere intrattenuto rapporti e contatti con soggetti riferibili a realtà imprenditoriali in concorrenza (prima e seconda contestazione) e per essersi sottratto ad un accertamento tecnico preventivo, facendo così dubitare della genuinità della malattia posta a fondamento delle assenze (terza contestazione)".

I fatti delle prime due contestazioni disciplinari erano stati raccolti a seguito di attività investigativa e di controllo della posta elettronica aziendale, cd. "digital forensics", e di pedinamento.

Il Tribunale ha ritenuto l’illegittimità di questa generale raccolta probatoria "per totale carenza di allegazioni in ordine al motivo che aveva determinato una così vasta attività di indagine nonché, con specifico riferimento all'attività di digital forensics, per la per mancata acquisizione preventiva del consenso da parte del lavoratore al controllo della posta elettronica aziendale come prescritto dal regolamento aziendale [...] , che tra l’altro non risultava nemmeno portato a conoscenza del lavoratore né tantomeno dallo stesso sottoscritto per accettazione".

La Corte di Appello di Milano, al pari del locale Tribunale, ha ritenuto che il datore di lavoro giudizialmente aveva l’obbligo di dedurre e provare i motivi che l’avevano indotto ad una indagine così invasiva, massiccia, indiscriminata e non giustificata su tutte le comunicazioni presenti nel pc aziendale in uso al dirigente, senza limiti di tempo, e con violazione dei diritti del lavoratore al rispetto della sua corrispondenza, con la conseguente inutilizzabilità processuale di tutti i fatti acquisiti con detti metodi illeciti.

Per la Corte di Appello, l’azienda aveva l’obbligo di provare di “aver preliminarmente informato il lavoratore della possibilità che le comunicazioni che effettuava sul pc aziendale avrebbero potuto essere monitorate” informandolo “del carattere e della portata del monitoraggio o del livello di invasività nella sua corrispondenza". Anche l’attività investigativa posta in essere, con il pedinamento del dirigente, doveva essere oggetto di specifica motivazione.

Contro la sentenza della Corte di Appello di Milano l’azienda ha proposto ricorso in Cassazione. Il ricorso è stato respinto dalla Cassazione che in materia di controlli difensivi aziendali ha affermato i seguenti principi.

Occorre distinguere, anche per comodità di sintesi verbale, "tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione che li pone a contatto con controlli che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti e 'controlli difensivi' in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili - in base a concreti indizi - a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro"; questi ultimi "controlli, anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore", si situano, ancora oggi, "all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4". Per non avere ad oggetto una "attività -in senso tecnico- dei lavoratore", il controllo "difensivo in senso stretto" deve essere "mirato" ed "attuato ex post", ossia "a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto", perché solo a partire "da quel momento" il datore può provvedere alla raccolta di informazioni utilizzabili. Tuttavia, anche "in presenza di un sospetto di attività illecita", occorrerà, nell'osservanza della disciplina a tutela della riservatezza del lavoratore, e segnatamente dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, "assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto". I tre profili sono compendiati nel finale principio di diritto che così statuisce: "Sono consentiti i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto".

Avuto riguardo alla controversia all'attenzione del Collegio, in cui la società ricorrente invoca proprio la sussistenza di un "controllo difensivo in senso stretto" sul computer aziendale del dipendente, viene in particolare rilevo la ripartizione degli oneri processuali di allegazione e prova in ordine agli elementi di fatto dai quali scaturisce il "fondato sospetto" che legittima tale tipologia di controlli.

Non può dubitarsi che incomba sul datore di lavoro l'onere di allegare prima e provare poi le specifiche circostanze che lo hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico ex post, considerato che solo tale "fondato sospetto" consente al datore di lavoro di porre la sua azione al di fuori del perimetro di applicazione diretta dell'art. 4 St. lav. e tenuto altresì conto del più generale criterio legale ex art. 5 1. n. 604 del 1966 che grava la parte datoriale dell'onere di provare il complesso degli elementi che giustificano il licenziamento.

Sicché sarebbe lesivo del diritto di azione e difesa del lavoratore addossargli un gravoso onere rispetto a fatti estranei alla sua sfera di conoscenza, mentre il datore di lavoro è agevolmente posto nella condizione di identificarli, in quanto nella sua disponibilità e allo stesso più prossimi e, quindi, più facilmente suffragabili. Allegazione e prova che devono riguardare anche circostanze temporalmente collocate, atteso che le stesse segnano il momento a partire dal quale i dati acquisiti possono essere utilizzati nel procedimento disciplinare e, successivamente, in giudizio, non essendo possibile l'esame e l'analisi di informazioni precedentemente assunte in violazione delle prescrizioni di cui all'art. 4 St. lav., estendendo "a dismisura" l'area del controllo difensivo lecito, considerato che non può essere reso retroattivamente lecito un comportamento che tale non era al momento in cui fu tenuto.”Cassazione sezione lavoro numero 18.168 pubblicata il 26 giugno 2023.

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
 La difficoltà sta proprio qui: coniugare l’astrattezza del concetto con la concretezza del numero. È un’operazione che non può essere   spezzata, né divisa tra più mani. Se la si frammenta, si rischia di perdere la piena comprensione del sistema.
La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.