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L'inettitudine assoluta e permanente giustifica la destituzione dell'insegnante di storia e filosofia

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08/09/2023

Il Ministero dell'istruzione ha destituito una docente di ruolo di storia e filosofia per l'assoluta e permanente inettitudine alla docenza, per una pluralità di fatti acquisiti a seguito di una visita ispettiva che aveva raccolto le dichiarazioni di alunni e professori e raccolto una pluralità di documenti dai quali non si desumeva una semplice disorganizzazione e faciloneria della docente ma un'assoluta incapacità didattica.

Questa incapacità, per il Ministero, era desumibile dalle seguenti circostanze in fatto:

"a) disattenzione dell'insegnante verso gli alunni durante le loro interrogazioni (uso continuo di cellulare con messaggistica; foto al libro di testo per la preparazione della verifica scritta in un'altra classe, contemporaneo colloquio con altro studente diverso dall'interrogato che stava rispondendo); b) assegnazione di voti in modo casuale ed improvvisato; c) scarsa attenzione ed improvvisazione durante le lezioni; d) scarsa cura nelle lezioni (non aveva il libro di testo che prendeva in prestito temporaneo dagli alunni); e) gravi imprecisioni nel redigere i programmi finali delle classi quarte (programma e numero di ore diversi da quelli dedicati effettivamente alle spiegazioni, ad es. argomento su Hegel in realtà mai trattato in classe)."

L'insegnante non utilizzava libri di testo, interrogava con disattenzione ed assegnava i voti a casaccio; il tutto con lezioni improvvisate.

In aggiunta a ciò, l'insegnante, rientrata a scuola dopo un periodo di assenza, non aveva mai preso visione dell'attività svolta dal supplente che l'aveva sostituita, violando così il principio della continuità didattica insito in qualsiasi programma scolastico.

Il periodo di insegnamento della docente oggetto dell'indagine ministeriale si riferiva a soli 4 mesi del 2015 e ad un mese del 2016. Nonostante il breve arco temporale della condotta esaminata, la Corte di Appello ha ritenuto che i fatti emersi fossero tali da giustificare il provvedimento di esonero dall'insegnamento.

Il provvedimento di destituzione è stato impugnato avanti il tribunale di Venezia, che accoglieva la domanda dell'insegnante e ne disponeva la reintegrazione nel posto di lavoro con il pagamento a carico del Ministero di tutte le retribuzioni maturate dalla data della destituzione.

La Corte di Appello di Venezia, però, su impugnazione del Ministero, ha riformato totalmente la sentenza ritenendo la destituzione dall'incarico di insegnante pienamente fondata.

La Corte di Appello, contrariamente alla sentenza del tribunale, ha valorizzato i fatti così come riportati nel verbale dell'ispettore ministeriale che costituiva piena prova della condotta e dei comportamenti non consoni alla funzione tenuti dall'insegnante.

La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello affermando i seguenti principi:

1. "L'incapacità didattica, che rende il docente non idoneo alla funzione, consiste nell'inettitudine assoluta e permanente a svolgere le mansioni inerenti all'insegnamento, inettitudine che deriva da deficienze obiettive, comportamentali, intellettive e culturali, che hanno come conseguenza prestazioni insoddisfacenti. Lo scarso rendimento, invece, si configura qualora quello stesso effetto venga prodotto non da un’oggettiva assenza di capacità, bensì da insufficiente impegno o dalla violazione dei doveri di ufficio". Nel caso in esame vi è una vera e propria incapacità all'insegnamento e non un semplice inadempimento agli obblighi contrattuali connessi alla funzione di insegnante.

2. La perdita dell'attitudine all'esercizio della funzione si è manifestata nel corso del rapporto di lavoro e a nulla rileva che l'insegnante abbia superato il periodo di prova, ben potendo l'incapacità didattica sopravvenire nel corso degli anni successivi. Tutto questo, a maggior ragione se si considera che nei 24 anni di servizio dell'interessata, ben 10 anni sono stati esercitati in attività diverse dall'insegnamento e nei rimanenti 14 anni i periodi frammentari di insegnamento sono risultati pari a circa 4 anni, essendo stati numerosi i periodi di di assenza per malattia e altre vicende contrattuali che hanno comportato la non prestazione dell'attività di insegnamento.

3. Nell'adozione del provvedimento di destituzione non vi è stata lesione del principio costituzionale della libertà di insegnamento, essendo stata accertata a carico dell'insegnante la "carente metodologia di lavoro", il "mancato possesso dei libri di testo", il "disinteresse per gli strumenti didattici", l'"introduzione di una lezione dialogata", l'"assenza di un esame del programma svolto dalla supplente e dal quale riprendere la continuità didattica". La Cassazione si è sentita in dovere di ricordare che la " libertà d'insegnamento quale libertà individuale costituisce un valore costituzionale che, però, non è illimitata, trovando il proprio più importante limite nella tutela del destinatario dell'insegnamento, cioè dell'alunno".

"La libertà d'insegnamento in ambito scolastico, quindi, è intesa come "autonomia didattica" diretta e funzionale a una "piena formazione della personalità degli alunni", titolari di un vero e proprio "diritto allo studio". Non è, dunque, libertà fine a se stessa, ma il suo esercizio, attraverso l'autonomia didattica del singolo insegnante, costituisce il modo per garantire il diritto allo studio di ogni alunno e, in ultima analisi, "la piena formazione della personalità" dei discenti. Ed allora, il concetto di "libertà didattica" comprende, certo, un'autonomia nella scelta di metodi appropriati d'insegnamento, ma questo non significa che l'insegnante possa non attuare alcun metodo o che possa non organizzare e non strutturare le lezioni. Una libertà così intesa equivarrebbe a una "libertà di non insegnare" incompatibile con la professione di docente. Né dietro lo schermo della libertà didattica possono nascondersi sciatterie, anziché idee degli insegnanti o una certa anarchia piuttosto che progettualità condivisa e partecipata." Cassazione civile sezione lavoro sentenza n. 17.897 del 22 giugno 2023.

La destituzione della docente di storia e filosofia con la sentenza della Cassazione è così divenuta definitiva. Per la cassazione la prova non finisce mai: l’attitudine all’insegnamento non si accerta in modo esclusivo nei primi mesi dell’assunzione, potendo questa attitudine essere oggetto di verifica del datore di lavoro anche dopo anni dall’assunzione e dall’originario superamento del periodo di prova.

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
 La difficoltà sta proprio qui: coniugare l’astrattezza del concetto con la concretezza del numero. È un’operazione che non può essere   spezzata, né divisa tra più mani. Se la si frammenta, si rischia di perdere la piena comprensione del sistema.
La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.