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Angherie contro l’infermiera per la sua relazione omossessuale con una delle dottoresse del reparto: discriminazione

tag  News  discriminazione  omofobia  lavoro  giustizia 

16/03/2023

Un'infermiera professionale di una struttura sanitaria pubblica lombarda ha promosso la causa contro l'azienda di cui era dipendente, lamentando di essere stata destinataria di diversi atti di molestia ad opera del dirigente medico del reparto, dovuti al suo orientamento sessuale. In particolare, ha lamentato di essere stata oggetto di queste molestie a causa della sua relazione sentimentale con una delle dottoresse del reparto.

Il Tribunale di Busto Arsizio ha svolto una ricca ed articolata attività istruttoria.

All'esito delle prove testimoniali, il Tribunale ha ritenuto che l'infermiera avesse ragione perché aveva dato piena prova dei vari episodi specifici che erano stati da lei dedotti a sostegno delle sue domande:

-il dirigente medico la chiamava con il nome della compagna e viceversa,

-il dirigente medico, rivolgendosi all'infermiera, " in occasione della visita di una paziente giovane che aveva dichiarato di non avere rapporti penetrativi, ed “ammiccando” le diceva “tanto a queste gli piace la minchia di gomma perché se stanno ferme gli piace pure”;

-il dirigente medico alla presenza di altri collaboratori rivolgendosi all'infermiera, le ha detto "dai trovami uno scannatoio che tanto tu sai stare con le puttane”;

-in un’altra occasione il dirigente medico, lamentando la gestione non corretta delle agende sbatteva la porta, dava pugni contro il muro e si rivolgeva all' infermiera urlandole "non hai capito che non sei pagata per pensare". Da quel momento l'infermiera è stata estromessa dalla gestione dell'agenda.

Il Tribunale lombardo, pur affermando che i fatti così come denunciati dall’infermiera erano state realmente poste in essere dal medico del reparto, non ha ritenuto che fosse stata fornita la prova che questi comportamenti fossero da collegare causalmente alla relazione omosessuale dell'infermiera con la collega dottoressa dello stesso reparto.

Il Tribunale non ha ritenuto così sussistente la natura discriminatoria dei comportamenti posti in essere dal medico ma ha ritenuto che questi comportamenti fossero, comunque, illeciti e da qualificare come atti di molestia sessuale. Il Tribunale di Busto Arsizio ha così condannato sia il medico che l'azienda sanitaria al risarcimento del danno per molestia sessuale, fattispecie meno grave della discriminazione a ragione dell’orientamento sessuale.

Contro la sentenza del Tribunale hanno proposto Appello sia l'infermiera che l'azienda sanitaria; entrambe, per opposte ragioni, non si sono ritenute soddisfatte per come il tribunale aveva deciso la controversia.

La Corte di Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione di entrambe le parti, ha innanzitutto ribadito il principio che gravava sull'infermiera dimostrare la sussistenza della discriminazione contro la sua persona. Questa prova, a giudizio della Corte di Appello, è stata idoneamente fornita dall’infermiera. Il comportamento posto in essere dal medico a danno dell'infermiera doveva essere correttamente qualificato come comportamento discriminatorio perché "oltre che essere di cattivo gusto, per usare un eufemismo," è soprattutto discriminatorio. Il medico, per la Corte di Appello, trattava l'infermiera "in maniera diversa e peggiore rispetto alle altre infermiere del reparto, mortificandola e isolandola, impedendole soprattutto di svolgere il proprio lavoro in maniera serena al pari delle colleghe" per il suo essere lesbica e per avere un rapporto sentimentale con una delle dottoresse del reparto.

L'azienda sanitaria non ha dato la prova che quel medico "fosse solito usare un linguaggio volgare ed allusivo anche nei confronti delle altre infermiere o dottoresse" del reparto, a prescindere dal loro orientamento sessuale.

Per la Corte di Appello di Milano dalle prove testimoniali assunte, è emerso in maniera chiara che le ostilità da parte del medico "non erano legate a motivi professionali ed in particolare alla gestione delle agende ma erano legate all'orientamento sessuale dell'infermiera perché erano iniziate proprio quando il medico aveva appreso della relazione sentimentale dell'infermiera con la dottoressa del reparto. Da questo momento egli aveva fatto di tutto per allontanare l'infermiera dal suo reparto, con ogni mezzo.

Per la Corte di Appello " La condotta complessiva, ..., è oggettivamente grave perché ha colpito l'infermiera nella sua dignità di essere umano, screditandola in ragione del suo orientamento sessuale che appartiene esclusivamente alla sfera privata di ciascun individuo, umiliandola e ponendola in una situazione di sottoposizione ingiustificata, privandola di quella tutela sul luogo del lavoro che deve essere assicurata dal datore di lavoro."

La Corte di Appello di Milano, riconoscendo la discriminazione, e non più la semplice molestia sessuale, come aveva fatto precedentemente il Tribunale, ha triplicato il risarcimento spettante all’infermiera per la sofferenza patita rispetto a quanto precedentemente deciso dal tribunale di Busto Arsizio.

Con la sentenza, la Corte di Appello ha condannato in solido l'azienda sanitaria al risarcimento dei danni e al pagamento delle spese processuali perché, "pur avendo avuto conoscenza della condotta discriminatoria posta in essere dal medico, non ha agito a tutela della lavoratrice ma anzi l'ha convinta a presentare la domanda di trasferimento." Corte di Appello di Milano sezione lavoro sentenza n. 1114 pubblicata il 6 marzo 2023.

La Corte di Appello ha sentito l’esigenza di precisare che non assumeva provvedimenti interdittivi nei confronti del medico per la cessazione del comportamento discriminatorio perché nel frattempo il rapporto di lavoro dell'infermiera con l'azienda sanitaria era definitivamente cessato e non vi era più motivo per adottare ulteriori provvedimenti a tutela della persona e dell’orientamento sessuale dell’infermiera.

Milano 16 marzo 2023

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
 La difficoltà sta proprio qui: coniugare l’astrattezza del concetto con la concretezza del numero. È un’operazione che non può essere   spezzata, né divisa tra più mani. Se la si frammenta, si rischia di perdere la piena comprensione del sistema.
La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.