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Se il datore di lavoro impone alle maestranze di indossare divise aziendali o dispositivi di protezione, il tempo impiegato deve considerarsi come lavorato

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30/07/2021

I lavoratori per questo tempo hanno diritto al pagamento della retribuzione

Alcuni dipendenti di un supermercato hanno adito l'autorità giudiziaria chiedendo che il tempo da loro impiegato nelle operazioni di vestizione e svestizione conseguenti all'uso di divisa aziendale e di dispositivi di protezione individuale da indossare prima dell'inizio dell'orario di lavoro e da lasciare in sede al termine fosse considerato come normale orario di lavoro da retribuire; hanno quantificato giornalmente in 20 minuti: 10 minuti in entrata e 10 minuti in uscita dal lavoro il tempo impegnato per questa attività. Conseguentemente hanno chiesto la condanna del supermercato al pagamento di questi minuti che dovevano essere considerati, a tutti gli effetti, come normale orario di lavoro.

Il Tribunale di Roma ha respinto il ricorso dei lavoratori ma la Corte di Appello di Roma, riformando radicalmente la decisione, ha accolto la domanda con la condanna del supermercato al pagamento dei connessi compensi. La Corte di Appello ha accolto la domanda dei lavoratori perché ha valutato le "operazioni di vestizione e svestizione come rientranti nel tempo di lavoro effettivo e comportano per il tempo necessario alla loro esecuzione l'insorgere dell'obbligo retributivo, condizione data dall'essere le modalità esecutive di quelle operazioni imposte dal datore di lavoro, nella specie implicitamente desumibili, in difetto di specifica previsione da parte del CCNL o del Regolamento aziendale, dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione".

Quel che è stato rilevato pregnante e assorbente per il riconoscimento di questo pagamento è stata l'esistenza dell’obbligo dei lavoratori di indossare le divise aziendali e i dispositivi imposto per volontà dell'azienda. La Corte di Appello, con una valutazione di fatto, basandosi anche sulla comune esperienza, ha ritenuto che per quelle operazioni di vestizione e svestizione occorressero 10 minuti per ciascuna di esse.

La società titolare del supermercato, insoddisfatta della sentenza, ha fatto ricorso in Cassazione chiedendone l'integrale riforma con una pluralità di motivi. La cassazione, però, ha respinto il ricorso dichiarando tutti i motivi inammissibili perché hanno sollevato questioni non più proponibili in Cassazione perché concernevano il merito della controversia che è sottratto alla valutazione dei giudici supremi, essendo questo un compito esclusivo dei giudici di merito.

La Cassazione, ha colto l'occasione, comunque per ribadire che i 20 minuti riconosciuti dalla Corte di Appello non meritano alcuna censura "giacché si trattava di calcolare sulla base di un mero criterio di ragionevolezza il tempo, contenuto in dieci minuti, in riduzione rispetto alla prospettazione degli originari istanti, che richiede l'avviare ed il concludere la vestizione e svestizione degli indumenti di lavoro, ciò comportando, l'accedere allo spogliatoio, il raggiungere l'armadietto, l'aprirlo, il reperire e dispiegare gli indumenti utili, il trovare un comodo appoggio per indossarli, l'indossarli, il riporre, specie nella stagione invernale, qualche indumento personale in eccesso nell'armadietto, il chiudere l'armadietto e il lasciare lo spogliatoio;"

 Cass. civ., sez. lav., ord., 23 luglio 2021, n. 21168. Tutte operazioni, queste, che fanno ritenere logicamente corretto e fondato in riconoscimento dei 10 minuti in entrata e altrettanti 10 minuti in uscita dal luogo di lavoro.

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
 La difficoltà sta proprio qui: coniugare l’astrattezza del concetto con la concretezza del numero. È un’operazione che non può essere   spezzata, né divisa tra più mani. Se la si frammenta, si rischia di perdere la piena comprensione del sistema.
La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.