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Se vi sono valide ragioni l'azienda europea può vietare l'uso del velo islamico sul luogo di lavoro

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23/07/2021

Lo afferma la Corte di Giustizia dell'Unione Europea

Avanti la Corte di Giustizia dell'Unione Europea sono stati proposti due ricorsi, di due diversi lavoratori, sulla corretta interpretazione da dare alla direttiva n. 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, nonché degli articoli 10 e 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

 Il primo ricorso è stato proposto contro un'associazione tedesca che gestisce numerosi asili nido, che ha sospeso dalle sue funzioni la lavoratrice a seguito del suo rifiuto di rispettare il divieto imposto dall'azienda ai suoi dipendenti di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di natura politica, filosofica o religiosa, quando sono a contatto con i genitori o i loro figli. Si tratta di un'associazione che gestisce un notevole numero di asili nido con sede in Germania, presso i quali lavorano oltre 600 dipendenti e sono iscritti circa 3.500 bambini. Essa è apartitica e aconfessionale. Per statuto questa associazione di asili nido, al fine di garantire lo sviluppo individuale e libero dei bambini, per quanto riguarda la religione, le convinzioni personali e la politica, prevede che collaboratori sono tenuti a rispettare rigorosamente l’obbligo di assoluta neutralità nei confronti di genitori, bambini e altri terzi. L'Associazione persegue una politica di neutralità politica, ideologica e religiosa nei confronti degli associati e degli iscritti.

Sul luogo di lavoro i collaboratori, nel rispetto dello statuto, non possono compiere nessuna esternazione di tipo politico, ideologico o religioso nei confronti di genitori, bambini o terzi; non possono indossare nessun segno visibile relativo alle loro convinzioni politiche, personali o religiose; non possono compiere nessun rito derivante da dette convinzioni alla presenza di genitori, bambini o terzi. Conseguentemente in esecuzione di questo obbligo di neutralità i vari collaboratori non possono indossare "il crocifisso cristiano, il velo musulmano o la kippah ebraica".

Una collaboratrice, violando queste disposizioni dell’azienda, si è presentata sul luogo di lavoro indossando il velo islamico. Al suo rifiuto di toglierlo è stata sospesa dal lavoro. La lavoratrice dopo la revoca della sospensione si è ripresentata sul luogo di lavoro nuovamente con il velo. L'associazione di fronte a questo comportamento trasgressivo ripetuto ha applicato alla lavoratrice inadempiente una sanzione disciplinare. La lavoratrice ha contestato la sanzione lamentando di essere stata discriminata in ragione del suo sesso femminile evidenziando che il divieto riguarda soprattutto le donne che provengono da un contesto di immigrazione. La discriminazione, pertanto, è anche per ragioni etniche e religiose.

 Il secondo ricorso è stato proposto, invece, da un altro lavoratore contro una società, anch'essa tedesca, che gestisce una catena di drogherie, che ha imposto agli addetti alle mansioni di cassiera di astenersi dall’indossare, sul luogo di lavoro, segni vistosi di natura politica, filosofica o religiosa. A seguito della violazione del divieto di indossare il velo islamico, la lavoratrice è stata assegnata ad altre mansioni che le consentivano di portare il velo. Ma la lavoratrice si è opposta contestando il provvedimento aziendale. L'azienda, di fronte all'insubordinazione, l'ha sospesa dal lavoro. L'azienda ha reiteramente ingiunto alla lavoratrice di presentarsi sul suo luogo di lavoro priva di segni vistosi e di grande dimensione che esprimessero le sue convinzioni di natura religiosa, politica o filosofica. Contro questo provvedimento la lavoratrice ha fatto ricorso al giudice tedesco sostenendo l'invalidità dell'ordine datoriale. A sostegno di questa sua iniziativa ha invocato la libertà di religione che prevale su ogni altra esigenza organizzativa del datore di lavoro.

 I giudici tedeschi hanno ritenuto, per la particolarità della materia e l’esistenza delle varie direttive, di dover coinvolgere la Corte Europea ponendole questi quesiti:

 «1) Se una direttiva unilaterale del datore di lavoro che vieti di indossare qualsivoglia segno visibile relativo alle convinzioni politiche, personali o religiose discrimini i lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in ragione di obblighi religiosi di coprirsi, in modo diretto e a causa della loro religione, ai sensi dell’articolo 2, [paragrafo 1 e paragrafo] 2, lettera a), della direttiva [2000/78].

 2) Se una direttiva unilaterale del datore di lavoro che vieti di indossare qualsivoglia segno visibile relativo alle convinzioni politiche, personali o religiose discrimini una lavoratrice che indossa il velo in ragione della sua fede musulmana, in modo indiretto e a causa della religione e/o del sesso, ai sensi dell’articolo 2, [paragrafo 1 e paragrafo] 2, lettera b), della direttiva 2000/78."

 La Corte Europea, esaminando i due casi, preliminarmente, ha affermato che la direttiva europea n. 2000/78 deve essere interpretata nel senso che "una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o le convinzioni personali, derivante da una norma interna di una impresa che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religione, può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti, a condizione che, in primo luogo, tale politica risponda ad un’esigenza reale di detto datore di lavoro, circostanza che spetta a quest’ultimo dimostrare prendendo in considerazione segnatamente le aspettative legittime di detti clienti o utenti nonché le conseguenze sfavorevoli che egli subirebbe in assenza di una tale politica, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui queste ultime si iscrivono; in secondo luogo, che detta differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale politica di neutralità, il che presuppone che tale politica sia perseguita in modo coerente e sistematico e, in terzo luogo, che detto divieto si limiti allo stretto necessario tenuto conto della portata e della gravità effettive delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un divieto siffatto."

 Dopo aver esaminato la legislazione tedesca e la direttiva europea che disciplina la materia, la corte europea ha statuito che:

"L’articolo 1 e l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che una norma interna di un’impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non costituisce, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in applicazione di precetti religiosi, una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di detta direttiva, ove tale norma sia applicata in maniera generale e indiscriminata. 2) L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, derivante da una norma interna di un’impresa che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti, a condizione che, in primo luogo, tale politica risponda ad un’esigenza reale di detto datore di lavoro, circostanza che spetta a quest’ultimo dimostrare prendendo in considerazione segnatamente le aspettative legittime di detti clienti o utenti nonché le conseguenze sfavorevoli che egli subirebbe in assenza di una tale politica, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui queste ultime si iscrivono; in secondo luogo, che detta differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale politica di neutralità, il che presuppone che tale politica sia perseguita in modo coerente e sistematico e, in terzo luogo, che detto divieto si limiti allo stretto necessario tenuto conto della portata e della gravità effettive delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un divieto siffatto. 3) L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una discriminazione indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali derivante da una norma interna di un’impresa che vieta, sul luogo di lavoro, di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose allo scopo di assicurare una politica di neutralità all’interno di tale impresa può essere giustificata solo se detto divieto riguardi qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Un divieto che si limiti all’uso di segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose vistosi e di grandi dimensioni è tale da costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, che non può in ogni caso essere giustificata sulla base di tale medesima disposizione. 4) L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che le disposizioni nazionali che tutelano la libertà di religione possono essere prese in considerazione come disposizioni più favorevoli, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva, nell’ambito dell’esame del carattere appropriato di una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. "Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 15 luglio 2021.

 

 

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
 La difficoltà sta proprio qui: coniugare l’astrattezza del concetto con la concretezza del numero. È un’operazione che non può essere   spezzata, né divisa tra più mani. Se la si frammenta, si rischia di perdere la piena comprensione del sistema.
La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.