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Nemmeno la confessione costituisce prova se il fatto è frutto di un controllo illecito sull’account della posta elettronica del dipendente

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01/03/2023

Il 12 gennaio 2021 l'azienda ha intimato il licenziamento per giusta causa ad una lavoratrice accusata di aver inoltrato all'esterno dell'azienda il piano marketing biennale, ritenuto informazione aziendale riservata, e di aver utilizzato per uso personale un programma aziendale che era stato fornito per l'esecuzione delle mansioni. Queste violazioni sono state accertate dall'azienda a seguito di un’indagine compiuta tramite la lettura della corrispondenza sull'account di posta personale della lavoratrice.

Avanti il Tribunale di Busto Arsizio, rendendo l’interrogatorio libero, la lavoratrice ha ammesso di aver scaricato delle immagini con l’account aziendale per uso personale. Il Tribunale di Busto Arsizio ha dichiarato la illegittimità del licenziamento, senza disporre la reintegrazione nel posto di lavoro, essendo il fatto sussistente; ha così dichiarato risolto il rapporto di lavoro, riconoscendo alla lavoratrice la sola indennità risarcitoria nella misura minima dei 12 mesi di retribuzione. Contro la decisione del Tribunale, hanno proposto reclamo alla Corte di Appello di Milano sia l'azienda che la lavoratrice lamentandone, per motivi opposti, la erroneità. Avanti la Corte d'Appello, la lavoratrice ha insistito sulla illegittimità del licenziamento col diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, stante l’illecito controllo eseguito dall'azienda sul suo account personale della posta, che è da considerarsi corrispondenza chiusa ed inaccessibile al datore di lavoro, dovendosi distinguere tra e-mail personali ed e-mail aziendali. Le e-mail personali sono state aperte dall’azienda scientemente, e non per caso fortuito, con violazione della segretezza e inviolabilità della corrispondenza. L'azienda ha contestato la sentenza sostenendo che l'account e-mail della lavoratrice, all’epoca della verifica dei fatti, era aperto e incustodito e si trovava sul dispositivo aziendale. L’azienda non ha eseguito alcun controllo occulto o preventivo, così come non ha forzato il sistema di accesso della casella di posta elettronica della lavoratrice per attingerne i dati. I fatti di rilevanza disciplinare evincibili dal contenuto della posta elettronica della dipendente erano stati scoperti dall'azienda in modo del tutto fortuito e casuale. L'indagine eseguita è stata frutto di questa iniziale fortuita scoperta. L'azienda ha agito in modo legittimo poiché il suo accertamento sui dati aziendali rientra tra i controlli difensivi che la legge le consente. La Corte di Appello, riesaminando i fatti, ha accolto il reclamo della lavoratrice respingendo quello dell’azienda; ha ordinato la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro perché la lettura delle e-mail personali da parte dell’azienda non è giustificabile con la necessità dei controlli difensivi. La Corte di Appello di Milano, a sostegno di questa sua decisione, ha richiamato l'indirizzo della Corte suprema di Cassazione e l’ha così motivata: “Perché tale legittima modalità di verifica difensiva abbia luogo, l’acquisizione stessa dei dati rilevanti deve avvenire successivamente al sorgere di un fondato sospetto di condotte illecite poste in essere dai dipendenti, mentre il mero reperimento ed esame di elementi già acquisiti senza l’osservanza delle modalità di cui all’art. 4 SL non può in alcun modo ritenersi consentito. Tanto è stato affermato in modo del tutto univoco dal Supremo Collegio, il quale, nella propria sentenza n. 34092 del 12.11.2021, ha ricostruito “il quadro entro il quale i controlli tecnologici possono considerarsi ancora legittimi dopo la modifica dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori”, spiegando in quali termini e limiti gli stessi possano essere attuati dal datore di lavoro. Secondo quanto affermato dalla Cassazione in tale pronuncia, l’accertamento datoriale “non dovrebbe riferirsi all'esame ed all'analisi di informazioni acquisite in violazione delle prescrizioni di cui all'art. 4 St.lav., poiché̀, in tal modo opinando, l'area del controllo difensivo si estenderebbe a dismisura, con conseguente annientamento della valenza delle predette prescrizioni. Il datore di lavoro, infatti, potrebbe, in difetto di autorizzazione e/o di adeguata informazione delle modalità̀ d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, nonché̀ senza il rispetto della normativa sulla privacy, acquisire per lungo tempo ed ininterrottamente ogni tipologia di dato, provvedendo alla relativa conservazione, e, poi, invocare la natura mirata (ex post) del controllo incentrato sull'esame ed analisi di quei dati. In tal caso, il controllo non sembra potersi ritenere effettuato ex post, poiché̀ esso ha inizio con la raccolta delle informazioni; quella che viene effettuata ex post è solo una attività̀ successiva di lettura ed analisi che non ha, a tal fine, una sua autonoma rilevanza. Può̀ , quindi, in buona sostanza, parlarsi di controllo ex post solo ove, a seguito del fondato sospetto del datore circa la commissione di illeciti ad opera del lavoratore, il datore stesso provveda, da quel momento, alla raccolta delle informazioni. Facendo il classico esempio dei dati di traffico contenuti nel browser del pc in uso al dipendente, potrà̀ parlarsi di controllo ex post solo in relazione a quelli raccolti dopo l'insorgenza del sospetto di avvenuta commissione di illeciti ad opera del dipendente, non in relazione a quelli già̀ registrati". Come sancito in tale pronuncia, occorre pertanto indagare in concreto “se i dati informatici rilevanti - … - fossero stati raccolti prima o dopo l'insorgere del fondato sospetto, in violazione dei principi esposti”.

Corte Appello di Milano sentenza n. n183/2023 pubbl. il 20/02/2023.

 

Nel caso specifico, per la Corte di Appello, i dati informatici acquisiti dall’azienda e che costituivano l’inadempienza della lavoratrice erano di epoca antecedenti al sorgere del sospetto aziendale e come tali erano processualmente inutilizzabili.

La Corte di Appello, applicando i principi affermati dalla Cassazione, non ha ritenuto utilizzabile disciplinarmente e processualmente le e-mail della lavoratrice, perché erano state acquisite in violazione dell'articolo 4 dello Statuto che tutela la privacy e la dignità del lavoratore. Senza l’uso della mail e del relativo allegato non sarebbe stato possibile all’azienda contestare i fatti di rilevanza disciplinare.

La Corte di Appello ha così ritenuto che le e-mail della lavoratrice non potevano trovare ingresso nel compendio probatorio nemmeno per via testimoniale o per libero interrogatorio “a pena di vanificare il divieto normativo”.  Le testimonianze raccolte e la confessione della stessa lavoratrice non hanno salvato l’azienda dall’obbligo di dover reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro con il risarcimento dei danni per la retribuzione persa. I tempi della decisione sono stati molto celeri considerato che il processo si è svolto con la fase sommaria e la fase di opposizione avanti il tribunale e il reclamo avanti la Corte e che in tribunale sono state assunte numerose testimonianze. L’amministrazione della giustizia, almeno sui tempi delle decisioni, rispetto al passato anche recente è decisamente migliorata nell’interesse sia delle aziende che dei lavoratori.

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
 La difficoltà sta proprio qui: coniugare l’astrattezza del concetto con la concretezza del numero. È un’operazione che non può essere   spezzata, né divisa tra più mani. Se la si frammenta, si rischia di perdere la piena comprensione del sistema.
La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.