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Reintegrazione nel posto di lavoro, opzione delle quindici mensilità aggiuntive.

L'articolo 18 dello statuto dei lavoratori prevede a favore del lavoratore che abbia ottenuto una sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro di rinunciare, in modo unilaterale e insindacabile, alla ripresa dell'attività lavorativa, chiedendo, in alternativa, la corresponsione di ulteriori quindici mensilità della retribuzione globale di fatto percepita. Il datore di lavoro ha l'obbligo di provvedere a detto pagamento, senza nulla poter opporre. Queste ulteriori quindici mensilità di retribuzione si aggiungono al risarcimento del danno, in misura non inferiore a 5 mensilità, già riconosciuto in sentenza.
L'articolo 18 dello statuto, che disciplina questo istituto giuridico, prevede testualmente quanto segue "Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti ."
Il datore di lavoro ha l'obbligo di corrispondere con immediatezza l'importo delle quindici mensilità perché diversamente continua ad avere l'obbligo di corrispondere la normale retribuzione fino al pagamento di dette mensilità oltre che l'obbligo di corrispondere sempre le quindici mensilità.
Questo meccanismo giuridico è ben spiegato da una sentenza della corte di cassazione che si riporta nella sua motivazione in modo esteso perché la si possa pienamente comprendere.
“Il problema della ricostruzione giuridica dell'opzione introdotta dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, stato affrontato e risolto dalla Corte Costituzionale, in termini che, contrariamente a quel che sembra ritenere il Tribunale di Sassari, non sono affatto irrilevanti ai fini della decisione e conducono ad una soluzione opposta a quella della sentenza qui impugnata. 
Vale infatti ricordare che nell'indagare circa la legittimità costituzionale del quinto comma dell'art. 18 Stat. Lav. come modificato dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, la Corte esaminò, rigettandola, l'ipotesi interpretativa, dalla quale sostanzialmente il giudice rimettente aveva preso le mosse, secondo cui nell'opzione doveva ravvisarsi un'ipotesi di dimissioni per giusta causa indennizzate, ipotesi che in effetti, come la Corte stessa non ha mancato di sottolineare avrebbe condotto a riconnettere alla dichiarazione di scelta del lavoratore l'effetto di far cessare il rapporto. 
Come noto, il giudice delle leggi, ha invece ritenuto che tale premessa fosse insostenibile, puntualmente osservando che "dopo la sentenza che ha ordinato la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condannato il datore al risarcimento del danno, il fatto precedente del licenziamento illegittimo non è più idoneo - se mai lo è stato - a fondare una giusta causa legalmente tipizzata di dimissioni dal rapporto di lavoro." ed aggiungendo che "ordine di reintegrazione nel posto, con facoltà del lavoratore di optare per il pagamento di un'indennità sostitutiva, e dimissioni per giusta causa indennizzate sono strumenti di tutela concettualmente diversi, che non possono fondersi l'uno con l'altro".Quindi è proprio sulla negazione di tale premessa che la Corte si è indotta a " ritenere più congrua l'interpretazione che ravvisa nella norma impugnata un'obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore", ed è tale ricostruzione sistematica che le ha consentito di puntualizzare, in conformità dei principi che regolano la categoria di obbligazioni nella quale la nuova disciplina va inquadrata, che "anziché la prestazione dovuta in via principale, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro, il creditore ha facoltà di pretendere una prestazione diversa di natura pecuniaria, che è dovuta solo in quanto dichiari di preferirla, e il cui adempimento produce, insieme con l'estinzione dell'obbligazione di reintegrare il lavoratore nel posto, la cessazione del rapporto di lavoro per sopravvenuta mancanza dello scopo". Ne deriva che "il rapporto non cessa per effetto della dichiarazione di scelta del lavoratore, come si dovrebbe pensare se essa avesse la valenza di dichiarazione di recesso, bensì solo al momento e per effetto del pagamento dell'indennità sostitutiva." Tale insegnamento è ormai ben presente nella giurisprudenza di questa Corte, la quale, in varie occasioni, ha sottolineato che l'obbligazione del datore di lavoro alla indennità pari a quindici mensilità di retribuzione di cui all'articolo 18, comma quinto legge n. 300 del 1970 si qualifica come obbligazione con facoltà alternativa, oggetto della quale è la reintegra nel posto di lavoro (Cass. 4 novembre 2000, n. 14 426; Cass. 12 giugno 2000 n. 8015; Cass. 8 aprile 2000, n. 4472; Cass. 16 ottobre 1998, n. 10283) e, per quel che rileva, in particolare, in questo giudizio, ha tratto le necessarie conseguenze dal principio secondo cui l'obbligo di reintegrazione facente carico al datore di lavoro, si estingue soltanto con il pagamento della indennità sostitutiva prescelta dal lavoratore illegittimamente licenziato, e non già con la semplice dichiarazione, proveniente da quest'ultimo, di scegliere tale indennità in luogo della reintegrazione. ponendo in rilievo che fino a quando "permane l'obbligo del datore di lavoro di reintegrare - e tale obbligo permane sino a quando egli non effettua il pagamento dell'indennità sostitutiva - lo stesso datore di lavoro è tenuto al risarcimento del danno cui il lavoratore ha parimenti diritto (atteso che il quinto comma dell'art. 18 citato attribuisce al lavoratore la facoltà di optare per l'indennità sostitutiva "fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma"). (Cass. 5 agosto 2000, n. 10326). 
Il controricorrente, che nel controricorso ha genericamente dichiarato di ritenere non applicabile al caso in esame la pronunzia cit., ha meglio chiarito nella memoria le diversità che, a suo dire, segnerebbero i due casi. Senonché non sembra che le diversità tra le due fattispecie inducano differenze nei principi giuridici ad esse applicabili. Nel caso oggetto della. decisione di questa Corte in ultimo cit., in presenza di una dichiarazione di opzione per l'indennità fatta già nel giudizio di primo grado il giudice d'appello, premesso che l'obbligo di pagamento delle retribuzioni persisteva sin quando non si attualizza l'obbligo di pagamento dell'indennità sostitutiva, preso atto che il lavoratore aveva rinunciato alla reintegra nel posto di lavoro sin dal momento del deposito del ricorso introduttivo, aveva ordinato il pagamento delle retribuzioni dal licenziamento sino alla sentenza di primo grado. 
Tale statuizione era stata censurata dal datore di lavoro ricorrente sul rilievo che con la rinunzia alla reintegrazione il lavoratore aveva deciso di non proseguire nel rapporto di lavoro e quindi di non avvalersi degli effetti di tale rapporto, in primis di quelli retributivi, sicché sul piano risarcitorio egli non poteva pretendere più delle cinque mensilità di retribuzione, ed anzi avrebbe dovuto subire in sede di eventuale liquidazione del danno la limitazione di cui all'art. 1227 c.c. dovendo ascrivere a sua colpa, consistente nella opzione manifestata, il danno da perdita delle retribuzioni. Si è già detto della risposta di questa Corte. È però opportuno sottolineare, ancora una volta, che il rigetto della censura è fondato proprio su ciò che quel caso ha in comune con quello ora all'esame, essendosi rilevato che, pur di fronte alla dichiarazione di opzione, l'obbligo di reintegrare resta sin quando l'indennità non sia corrisposta. 
Tale principio, che il collegio condivide pienamente, fa perdere completamente rilievo alla circostanza relativa al momento in cui là dichiarazione di opzione sia stata resa. Tanto più che, come sottolineato da questa Corte, il diritto del lavoratore illegittimamente licenziato, di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro l'indennità sostitutiva prevista da quinto comma dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge 11 maggio 1990, n. 108 deriva dall'illegittimità del licenziamento e sorge contemporaneamente al diritto alla reintegrazione (fra le molte Cass. 16 ottobre 1998, n. 10283). 
È utile ricordare, d'altra parte, che seppur con riguardo all'ambito della tutela così detta obbligatoria, questa corte ha avuto modo di affermare che, in detto ambito, la previsione dell'art. 8 della legge n. 604 sulla alternatività tra riassunzione e risarcimento del danno deve essere interpretata, per assicurarne la conformità ai principi costituzionali (Corte Cost. n. 194 del 1970 e n. 44 del 1996), nel senso che il pagamento della indennità risarcitoria, qualora il rapporto di lavoro non si ripristini, sia sempre dovuto, senza che rilevi quale sia il soggetto e quale sia la ragione per cui ciò si verifichi, desumendone, in particolare, la conseguenza che, quando il lavoratore chiede in giudizio il pagamento dell'indennità, il datore di lavoro, ove risulti confermata la mancanza di una valida giustificazione del licenziamento, non può sottrarsi al pagamento dell'indennità offrendo la riassunzione.(Cass. 5 gennaio 2001, n. 107; conf. Cass. 26 febbraio 2002 n. 2846). 
Può pertanto affermarsi, quale ulteriore conseguenza dei principi sopra richiamati, che il diritto di far valere quale titolo esecutivo la sentenza che, nel disporre della reintegrazione del lavoratore licenziato, ha attribuito a titolo risarcitorio le retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento a quella della riassunzione, non viene meno per effetto della dichiarazione di opzione per le quindici mensilità comunicata al datore di lavoro, sino a quando quest'ultimo non abbia eseguito la suddetta prestazione.” 
( sentenza Corte Cassazione n. 1609/2003)

Milano 15 dicembre 2008.

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Numeri chiari, giustizia più rapida
I giudici del lavoro, nei tribunali e nelle corti d’appello, non amano confrontarsi con i numeri. Quando una causa richiede conteggi, la prassi è quasi sempre la stessa: nominare un consulente tecnico d’ufficio e adeguarsi alle sue conclusioni. Ma questo significa allungare i tempi e appesantire il procedimento con costi ulteriori.
Proprio perché questa è la realtà, il giuslavorista ha un dovere in più: presentare la parte economica del ricorso in modo chiaro, lineare e subito comprensibile. Se le pretese o le contestazioni sono esposte con semplicità e precisione, la consulenza tecnica può diventare inutile.
È un compito che non si può ignorare. Difendere un lavoratore o un’azienda significa anche saper trasformare principi giuridici in cifre leggibili, senza zone d’ombra. Il giuslavorista si misura qui: nello sforzo costante di rendere trasparenti i numeri della causa, perché solo numeri chiari possono portare a decisioni corrette con il diritto e le previsioni del CCNL.

 La rapidità come obbligo dello studio 
Nel diritto del lavoro la rapidità è imprescindibile. La legge prevede che, dopo l’impugnazione di un licenziamento o di un trasferimento, il ricorso debba essere depositato entro 180 giorni: decorso tale termine, il diritto si perde. È una scansione temporale rigida, che impone al lavoratore di non lasciare che il tempo eroda la propria tutela.
 La rapidità come necessità pratica
La stessa urgenza vale per le cause che riguardano differenze retributive o risarcimenti. In un sistema dominato da appalti ed esternalizzazioni, le imprese appaltatrici spesso si cancellano dal registro delle imprese subito dopo aver concluso l’affare, lasciando i lavoratori senza interlocutore. In questi casi occorre “battere sul tempo”: solo agendo tempestivamente la sentenza conserva un valore concreto e non si riduce, come le gride manzoniane, a un proclama destinato a restare lettera morta.

Buste paga e contratti collettivi: una specializzazione indispensabile

Nel diritto del lavoro, applicare correttamente i contratti collettivi e redigere le buste paga con precisione non è un dettaglio: è una linea di confine tra la tutela dei diritti e il rischio concreto di contenziosi. Per il lavoratore significa poter confidare che chi legge quei numeri veda anche ciò che non è detto: scatti di anzianità, indennità, straordinari, clausole contrattuali speciali — tutto ciò che si nasconde dietro le cifre.
Per l’azienda, invece, un errore — anche minimo — può costare doppiamente: dovrà ripagare somme già versate in difetto e versare differenze che il giudice riconosce per mancata corretta applicazione del contratto collettivo. In altri termini: un “risparmio scorretto” oggi può trasformarsi in un esborso ben più grave domani.
Ecco perché la specializzazione tecnica in contratti collettivi e paghe non è una mera opzione: è un’assicurazione per chi tutela i diritti dei lavoratori e una protezione per chi assume l’onere della compliance aziendale.

 

 

  La nostra forza: istituti retributivi  e numeri, un sapere unitario

 Leggere e interpretare le previsioni economiche di un contratto collettivo non è mai semplice. Non basta scorrere le tabelle: occorre   tradurre principi giuridici astratti nei calcoli che incidono sui diversi istituti retributivi. È un passaggio complesso, che richiede   conoscenza tecnica e visione giuridica.
 La difficoltà sta proprio qui: coniugare l’astrattezza del concetto con la concretezza del numero. È un’operazione che non può essere   spezzata, né divisa tra più mani. Se la si frammenta, si rischia di perdere la piena comprensione del sistema.
La nostra forza nasce da questa consapevolezza: costruiamo in modo unitario istituti giuridici e proiezioni economiche, senza scollature tra teoria e pratica. Diritto del lavoro e numeri camminano insieme, in un’unica lettura. Ed è proprio questa integrazione che rende il nostro lavoro affidabile, solido e capace di dare risposte certe a lavoratori e imprese.